di Valerio Massimo De Angelis, “Il Manifesto”, 15 marzo 2008
Sarà pur vero che Waldo Emerson «si e sempre considerato poeta» («di basso rango, senza dubbio», si trova però a confidare alla moglie Lydia), e che numerose sono le attestazioni di stima per le sue doti di poeta da parte di esponenti della cultura americana ed europea. Nella sua introduzione alla bella traduzione di tre saggi di Emerson sulla poesia («Il poeta», «Poesia e immaginazione» e «Ispirazione», raccolti in Essere poeta, Moretti & Vitali, pp. 109, € 16,00), Beniamino Soressi giustamente lo sottolinea, e chiama in suo sostegno personalità come Robert Frost, William James, Nietzsche e Borges.
Sta di fatto che sono assai più frequenti le sommarie liquidazioni di una produzione poetica che certo non regge il confronto con quella dell'entusiasta discepolo di Emerson, Walt Whitman. Lo stesso Soressi ricorda come anche le lodi di Harold Bloom si riferiscono più al filosofo della poesia che non al poeta in quanto tale. E comunque non sarà un caso che il libro che ripropone il più influente pensatore americano, se non proprio il più grande, all'attenzione di un pubblico italiano comunque poco propenso a seguire i voli pindarici di un'immaginazione ostinatamente refrattaria alla sistematicità razionale (che è poi quel che si vorrebbe da un filosofo), non si arrischi ad
addentrarsi nell'universo poetico di Emerson, ma in quello delle sue riflessioni sulla poesia.
In effetti; l’impressione che non di rado si ottiene nel leggere Emerson è che, detto brutalmente, se la sua poesia e troppo filosofica, la sua filosofia è troppo poetica, con la differenza che l’avvitamento in cervellotiche meditazioni appesantisce inesorabilmente gran parte della sua produzione in versi, mentre è proprio lo scatto deviante, eversivo, sostanzialmente illogico del poeta a trasformare le – evidenti – ambiguità e aporie del suo pensiero in feconde aperture verso nuovi e inattesi orizzonti di senso. Nei tre saggi raccolti in Essere poeta la
componente visionaria del fondatore del Trascendentalismo si impone con la forza di chi concepisce l'atto poetico non come controllato esercizio di stile (anche se poi, paradossalmente, tali appaiono all'occhio e all’orecchio proprio le sue composizioni poetiche, rigidamente inquadrate in tradizionalissime forme metriche), ma come erompere spontaneo della scintilla dell’ispirazione che risiede in misura maggiore o minore in ogni singolo individuo, oltre ogni distinzione e gerarchia di classe, sesso, razza, persino cultura. Ci vorrà poi un Whitman per tradurre in modo davvero adeguato, nel suo alluvionale linguaggio paratattico, la vena profeticamente rivoluzionaria di questa filosofia democratica della poesia, che tutto accetta e nulla rifiuta, a partire dalle sue proprie contraddizioni -«Mi contraddico? / Benissimo, allora mi contraddico / (sono ampio, contengo moltitudini)», scriverà Whitman in «Canto di me stesso», quando pubblicherà la prima edizione di Foglie d'erba, nel 1855, seguendo esplicitamente i precetti dettati nel 1844 da «Il poeta»).
L'intenzione radicalmente egualitaria di Emerson si manifesta fin dalle primissime parole di questo imbizzarrimento di una parola che si scioglie dalle briglie dell’ordine logico e grammaticale, per rivendicare con passione esplosivamente metaforica che «noi non siamo né bracieri ne carriole e neanche corrieri del fuoco e tedofori, ma figli del fuoco, fatti di fuoco, e nient'altro che la stessa divinità trasmutata, e a due o tre passi appena da noi, quando meno lo sappiamo». Questo 'noi' si riferisce sia all'umanità universale sia, più specificamente, al popolo dei poeti (quantomeno potenziali), cui spetta nientemeno che il compito di legiferare, in quanto supremi «Nominatori», sulla configurazione del mondo, creandolo nel mentre ad esso danno voce, perché «il poeta è colui che può articolarlo». Nell'ambiguità di questa formulazione del “potere della poesia” sta quella duplicità della concezione tutta americana della democrazia e dell'uguaglianza, e delle modalità attraverso le quali devono essere garantite dall'autorità, per cui se tutti siamo uguali e ugualmente possiamo partecipare all'universo simbolico che è in fondo il vero orizzonte della vita («Noi siamo simboli e abitiamo simboli; lavoratori, operatori e operai, lavoro e opere, arnesi, parole e cose, nascita e morte, tutti sono emblemi»), non tutti tuttavia riescono a usare questi simboli «in modo originario» (il testo 'originale' recita «they carnnot originally use them»; il traduttore ha scelto 'originario' anziché 'originale', obbligato com'è a scindere la polisemia del termine inglese, ma qui Emerson implica che il poeta è sia chi dà origine al mondo con il primo uso di un simbolo, sia chi riesce a usarlo in modo diverso, inusuale, 'nuovo'). L'uguaglianza delle opportunità non corrisponde, in poesia come nella vita o nella politica, all'uguaglianza delle realizzazioni, e meno che mai all'uguaglianza del potere. Quando Francis Otto Matthiessen osserva in Rinascimento americano che per Emerson il «valore fondamentale del simbolo per il poeta sta nel fatto che «costringe il lettore a essere coinvolto nel processo poetico», implicitamente sottolinea come tale processo non sia paritario, e come le regole del gioco siano in qualche modo imposte dal poeta al lettore.
A trent'anni di distanza da «Il poeta», Emerson torna a elaborare la sua filosofia della poesia negli altri due saggi della raccolta, finora inediti in Italia, e pubblicati in Letters and Sacial Aims (1876). In «Poesia e immaginazione» il filosofo si avventura, secondo una pratica per lui abbastanza inconsueta, nella disamina di questioni eminentemente tecniche, discettando con competenza di tropi e metri, e recuperando la distinzione coleridgeana tra l'«immaginazione», che è una facoltà creativa e «centrale», e la «fantasia», che invece «riguarda la superficie». La poesia è qui sia quella «gaia scienza» che conquisterà Nietzsche, sia una «fede», perché è «scritta con un umano dovrebbe o sarebbe, anziché con il fatale è»: la tensione, ancora una volta prettamente americana, tra atto e potenza, materialità del presente e utopico sogno del futuro, trova la sua perfetta composizione nella poesia, che è, qui e ora, e al tempo stesso adombra quel che sarà, quantunque il poeta non ne abbia il pieno controllo – concetto espresso con fenomenalmente leggerissima metafora poetica: "Ogni scrittore è un pattinatore: deve andare in parte dove vorrebbe, e in parte dove lo portano i pattini».
Più erratico e meno fondamentale degli altri due è l'ultimo saggio della raccolta, «Ispirazione», anch’esso peraltro percorso da lampi immaginifici, e pure da sorprendenti professioni d'umiltà, come quella in cui l'autore invidia la capacità d'astrazione di certi studiosi, e confessa che i suoi occhi «sono più come quelli di una donna», attenti alla concretezza e al dettaglio (e, tanto per cambiare, quel che sembra un difetto si tramuta quasi magicamente, poeticamente, in virtù). Qui come altrove, la preziosità dell'intuizione emersoniana non va cercata in una (inesistente) precisione intellettuale, ma nel frastornante incedere a scarti di un pensiero che, non volendo (o non potendo) incardinarsi in solide architetture, preferisce l'icasticità aforistica, efficacissima per quella comunicazione orale cui è indirizzata gran parte delle opere in prosa di Emerson (stiamo parlando del più famoso oratore americano dell'Ottocento, una sorta di rock star di quei tempi che sapeva radunare decine di migliaia di persone per i suoi discorsi): alla fine, più che a una teoria filosofica della poesia, siamo di fronte a una pratica poetica della filosofia, che realizza nell'atto medesimo del pensarlo l'obiettivo della propria ricerca – riscattare l'inventività della parola, renderla ancora e di nuovo poiesis, creazione.