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domenica 12 luglio 2009

Anche Benigni legge Ralph Waldo Emerson

Benigni rivela: "Ecco tutti i poeti che hanno scritto la mia Tigre"
di ROBERTO BENIGNI, (23 maggio 2006)
IL TALMUD inizia a pagina 2 proprio per indicare al lettore che anche quando avrà finito di leggerlo non avrà ancora cominciato.E Machiavelli dice: ci sono persone che sanno tutto, ma questo è tutto quello che sanno. E allora perché leggere? Ma magari nel mondo, come nelle fiabe, c´è ancora qualcuno che fa una cosa che ci hanno insegnato quando eravamo piccoli piccoli e che tutti ci siamo dimenticati. Che Dio ti benedica, caro lettore! Ma chi sei? Dove sei? Fatti vedere! Tu magari stai leggendo così, tranquillamente, senza renderti conto della tua unicità. Ormai gli scrittori sono molto più numerosi dei lettori e tra poco sarà lo scrittore a chiedere l´autografo al lettore, diceva Shane tanto tempo fa. Ma ora di lettori ne è rimasto solo uno: Tu. Che Dio ti conservi. Borges diceva: io non sono orgoglioso dei libri che ho scritto, sono orgoglioso dei libri che ho letto. Altri tempi. Nessuno legge più. Nemmeno i critici, i quali sostengono che se leggessero un libro per poi recensirlo ciò altererebbe il loro giudizio, sarebbero condizionati da ciò che leggono, insomma non potrebbero scrivere quello che vogliono perché anche loro giustamente vogliono soprattutto scrivere e non leggere.Forse perché siamo fatti a immagine e somiglianza del nostro Creatore. È pur vero, infatti, che anche il Padreterno non ha mai letto un libro ma ne ha scritto uno. Nel quale ci indica l´infallibile via per vivere in pace. E da come va il mondo si capisce, ancora una volta, che nessuno lo ha letto. Sì, nessuno legge più. Nemmeno i coretori di bozze (se troverai scritto correttori con una sola "R" e una sola "T", ciò ne sarà la riprova). Quindi, amato lettore, che Dio ti benedica ancora! Poiché tu stai leggendo. E una sceneggiatura, per giunta! E cos'è una sceneggiatura? Lo sceneggiatore è come lo Spirito Santo. Colui che ha soffiato nell'animo di Dio tutte le trame, gli intrecci, le battute e ha letto l'Eternità per poi scrivere quello che l'autore ha realizzato in sette giorni. E ora noi non facciamo che ripetere. Forse per questo nessuno legge più. Perché tutto è già stato detto. E anche che tutto è già stato detto è già stato detto. Non c'è nulla di nuovo sotto il sole, diceva Qohélet. E allora forse bisognerà andare a vedere cosa c'è sopra il sole per trovare una novità. Ma la novità, ha detto Prévert, è la cosa più vecchia che ci sia. E allora proviamo a rinnovarci con l'avanguardia. Ma Gore Vidal ha detto che al mondo tutto cambia tranne l'avanguardia. E allora? Che fare?, come diceva Lenin. Ah! Non se ne esce. Mi verrebbe da imprecare e urlare: "Merda!" se non dovessi pagare i diritti d'autore a Cambronne. Ma tu, lettore beato, che non hai nulla da fare, puoi ben credermi se ti dico che questa sceneggiatura, figlia com'è del mio pensiero, è la più bella, la più brillante, la più geniale che si possa immaginare. Però non ho potuto sfuggire alle leggi della natura, e in natura ogni cosa ne produce un'altra simile a sé. L'autore deve soltanto giovarsi dell'imitazione; e tanto più perfetta sarà l'imitazione, tanto migliore sarà quel che scriverà (Miguel de Cervantes, Don Chisciotte, I, Prologo). Addirittura Picasso ha detto: "Io non imito, copio". E allora, caro lettore, goditela questa meravigliosa sceneggiatura che, come ogni seria opera d'arte, narra la genesi della propria creazione, come dice Jakobson. Sì, perché anche noi abbiamo copiato tutto in questa sceneggiatura scritta, come direbbe Vincenzo Cerami, a quattro mani con Roberto Benigni. Ormai siamo diventati tutti come la dea Eco, quella che non sa parlare per prima, che non può tacere quando le si parla, che ripete solamente i suoni della voce che la colpisce, ha detto Ovidio. E quindi ha ragione Karl Kraus quando scrive: chi ha qualcosa da dire si faccia avanti e taccia! Ed è lo stesso Kraus a sostenere che la lingua è un sistema di citazioni. E io lo cito! Voglio fare come Henry James, che meravigliosamente ha detto: la mia mente è talmente pura che non è stata mai sporcata da un'idea. Anche Walter Benjamin sognava di pubblicare un libro interamente fatto di citazioni. "A me manca l'originalità necessaria", gli ha risposto George Steiner. Però sarebbe piaciuto perfino a lui. Infatti, subito dopo il creatore di una buona frase viene, in ordine di merito, il primo che lo cita. E anche se qualcuno può non essere d'accordo con questo pensiero di Ralph W. Emerson, come per esempio Roland Barthes che dice che non si può riprodurre ciò che è stato detto senza provare un certo senso di colpa, è pur vero che il semplice prelevamento di una citazione, la scelta nella quale la inserisco, il taglio che le dò, la trasforma e la fa diventare mia, come ha osservato Michel Butor. Altrimenti cosa farebbero autori come Paul Celan, che ha detto: "Non ho mai saputo inventare"? E tu, caro lettore, credo che sarai d'accordo con me. Anche perché le obiezioni spesso nascono dal fatto che chi le fa non è stato lui a trovare l'idea che attacca. E infatti io non ho nulla da obiettare a questa idea che ho appena esposto di Paul Valéry. Proprio per questo non mi sfiora neanche l'idea di avere delle idee, perché oltre a essere attaccati ci si mette anche nella condizione di essere citati, tanto per citare un pensiero di Jean Rostand. No, no, sono d'accordo con Morselli: voglio conoscere solo quello che so già. Soprattutto perché sono sicuro che se qualcuno oggi dice qualcosa di nuovo vuol dire che l'ha letto da qualche altra parte, ho letto in un libro di Kraus. Va bene, finisco qui perché ricordo che agli ambasciatori di Samo che avevano tenuto un lungo discorso, gli Spartani dissero: abbiamo dimenticato il principio e perciò non abbiamo capito la conclusione. Questo almeno racconta Plutarco. Il lettore mi perdonerà e sarà finalmente libero di leggere questa meravigliosa storia dove, come ha confessato il divo Eco a proposito di Il nome della rosa, non c'è una parola di mio. E con questo, caro lettore, concludo. Dio ti dia salute e non si scordi di me. Vale.P. S. L'ultima frase è ancora di Cervantes (Don Chisciotte, I, Prologo), citata da Stendhal in Il rosso e il nero.

"Condotta di vita": Ralph Waldo Emerson, Jorge Luis Borges e Nietzsche

di Gennaro Fucile, da "Quaderni d'altri tempi"

Nella prima delle cinque lezioni tenute all’Università di Belgrano (Buenos Aires), intitolata Il libro, Jorge Luis Borges affermò che: “Emerson concorda con Montaigne sul fatto che dobbiamo leggere ciò che ci piace, che un libro deve essere una specie di felicità”. La lettura dello stesso Emerson conferma la bontà di questa riflessione, essendo fonte di gioia autentica e non solo quando incontriamo il poeta. Immergersi nella sua prosa è concedersi l’autentico piacere della lettura. Non si tratta però di un puro intrattenimento formale. Questi saggi, raccolti in volume e pubblicati originariamente nel dicembre del 1860, e per la prima volta in Italia nel 1923, con il titolo La guida della vita, sono una vera miniera di intuizioni folgoranti. Lo furono anche per Friedrich Nietzsche, che lesse, studiò e metabolizzò non poco Emerson, avvicinandosi, appena diciassettenne, alla “filosofia nella vita”. Bastino, per chi ha familiarità con il filosofo della volontà di potenza, i versi che introducono al saggio intitolato Potenza: “La sua lingua aveva musicalità / e la mano aveva armata d’abilità / il suo viso era stampo della beltà / e il suo cuore trono della volontà”. Zarathustra è dietro l’angolo. Non a caso, sul legame tra i due calò, in pieno fascismo, un assordante silenzio: troppo intollerabile l’idea che proprio l’intellettuale simbolo della libertà, il filosofo della democrazia, solare, ebbro di vita, fosse il maestro occulto di quello che il Terzo Reich aveva eletto a proprio vate e filosofo di riferimento. Una singolarità di quelle che proprio Borges avrebbe amato annotare. Preziosa la ricostruzione accurata delle vicende critiche di questi saggi – nati da materiali utilizzati per una serie di conferenze tenute a Pittsburgh nel 1851 – che in postfazione compie Beniamino Soressi, cui si deve la traduzione di questi testi.




Su questi temi si vedano anche:

venerdì 10 luglio 2009

La democrazia delle visioni. Tre saggi sull’“essere poeta” di Ralph Waldo Emerson

di Valerio Massimo De Angelis, “Il Manifesto”, 15 marzo 2008

Sarà pur vero che Waldo Emerson «si e sempre consi­derato poeta» («di basso rango, sen­za dubbio», si trova però a confida­re alla moglie Lydia), e che numerose sono le attestazioni di stima per le sue doti di poeta da parte di espo­nenti della cultura americana ed eu­ropea. Nella sua introduzione alla bella traduzione di tre saggi di Emerson sulla poesia («Il poeta», «Poesia e immaginazione» e «Ispira­zione», raccolti in Essere poeta, Moretti & Vitali, pp. 109, € 16,00), Beniamino Soressi giustamente lo sottolinea, e chiama in suo soste­gno personalità come Robert Frost, William James, Nietzsche e Borges.

Sta di fatto che sono assai più fre­quenti le sommarie liquidazioni di una produzione poetica che certo non regge il confronto con quella dell'entusiasta discepolo di Emer­son, Walt Whitman. Lo stesso Sores­si ricorda come anche le lodi di Ha­rold Bloom si riferiscono più al filo­sofo della poesia che non al poeta in quanto tale. E comunque non sa­rà un caso che il libro che ripropo­ne il più influente pensatore ameri­cano, se non proprio il più grande, all'attenzione di un pubblico italia­no comunque poco propenso a se­guire i voli pindarici di un'immagi­nazione ostinatamente refrattaria alla sistematicità razionale (che è poi quel che si vorrebbe da un filo­sofo), non si arrischi ad addentrarsi nell'universo poetico di Emerson, ma in quello delle sue riflessioni sul­la poesia.
In effetti; l’impressione che non di rado si ottiene nel leggere Emer­son è che, detto brutalmente, se la sua poesia e troppo filosofica, la sua filosofia è troppo poetica, con la differenza che l’avvitamento in cervellotiche meditazioni appesantisce inesorabilmente gran parte della sua produzione in versi, men­tre è proprio lo scatto deviante, eversivo, sostanzialmente illogico del poeta a trasformare le – eviden­ti – ambiguità e aporie del suo pen­siero in feconde aperture verso nuo­vi e inattesi orizzonti di senso. Nei tre saggi raccolti in Essere poeta la
componente visionaria del fondatore del Trascendentalismo si impone con la forza di chi concepisce l'atto poetico non co­me controllato esercizio di stile (anche se poi, paradossalmen­te, tali appaiono all'occhio e all’orecchio proprio le sue com­posizioni poetiche, rigidamente inquadrate in tradizionalissime forme metriche), ma come erompere spontaneo della scintilla dell’ispirazione che risiede in misura maggiore o minore in ogni singolo individuo, oltre ogni distinzione e gerarchia di classe, sesso, razza, persino cultura. Ci vorrà poi un Whitman per tradurre in modo davvero adeguato, nel suo alluvionale linguaggio paratattico, la vena profeticamente rivo­luzionaria di questa filosofia democratica della poesia, che tut­to accetta e nulla rifiuta, a partire dalle sue proprie contraddi­zioni -«Mi contraddico? / Benissimo, allora mi contraddico / (sono ampio, contengo moltitudini)», scriverà Whitman in «Canto di me stesso», quando pubblicherà la prima edizione di Foglie d'erba, nel 1855, seguendo esplicitamente i precetti dettati nel 1844 da «Il poeta»).

L'intenzione radicalmente egua­litaria di Emerson si manifesta fin dalle primissime parole di questo imbizzarrimento di una parola che si scioglie dalle briglie dell’ordi­ne logico e grammaticale, per riven­dicare con passione esplosivamen­te metaforica che «noi non siamo né bracieri ne carriole e neanche corrieri del fuoco e tedofori, ma fi­gli del fuoco, fatti di fuoco, e nient'altro che la stessa divinità trasmu­tata, e a due o tre passi appena da noi, quando meno lo sappiamo». Questo 'noi' si riferisce sia all'umanità universale sia, più specifica­mente, al popolo dei poeti (quan­tomeno potenziali), cui spetta nien­temeno che il compito di legiferare, in quanto supremi «Nominatori», sulla configurazione del mondo, creandolo nel mentre ad esso dan­no voce, perché «il poeta è colui che può articolarlo». Nell'ambigui­tà di questa formulazione del “potere della poesia” sta quella du­plicità della concezione tutta ameri­cana della democrazia e dell'ugua­glianza, e delle modalità attraverso le quali devono essere garantite dall'autorità, per cui se tutti siamo uguali e ugualmente possiamo partecipare all'universo simbolico che è in fondo il vero orizzonte della vi­ta («Noi siamo simboli e abitiamo simboli; lavoratori, operatori e ope­rai, lavoro e opere, arnesi, parole e cose, nascita e morte, tutti sono em­blemi»), non tutti tuttavia riescono a usare questi simboli «in modo ori­ginario» (il testo 'originale' recita «they carnnot originally use them»; il traduttore ha scelto 'originario' anziché 'originale', obbligato co­m'è a scindere la polisemia del ter­mine inglese, ma qui Emerson im­plica che il poeta è sia chi dà origi­ne al mondo con il primo uso di un simbolo, sia chi riesce a usarlo in modo diverso, inusuale, 'nuovo'). L'uguaglianza delle opportunità non corrisponde, in poesia come nella vita o nella politica, all'ugua­glianza delle realizzazioni, e meno che mai all'uguaglianza del potere. Quando Francis Otto Matthiessen osserva in Rinascimento americano che per Emerson il «valore fonda­mentale del simbolo per il poeta sta nel fatto che «costringe il lettore a essere coinvolto nel processo poe­tico», implicitamente sottolinea co­me tale processo non sia paritario, e come le regole del gioco siano in qualche modo imposte dal poeta al lettore.
A trent'anni di distanza da «Il po­eta», Emerson torna a elaborare la sua filosofia della poesia negli altri due saggi della raccolta, finora ine­diti in Italia, e pubblicati in Letters and Sacial Aims (1876). In «Poesia e immaginazione» il filosofo si avventura, secondo una pratica per lui ab­bastanza inconsueta, nella disami­na di questioni eminentemente tec­niche, discettando con competen­za di tropi e metri, e recuperando la distinzione coleridgeana tra l'«im­maginazione», che è una facoltà creativa e «centrale», e la «fantasia», che invece «riguarda la superficie». La poesia è qui sia quella «gaia scienza» che conquisterà Nietzsche, sia una «fede», perché è «scritta con un umano dovrebbe o sarebbe, anziché con il fatale è»: la tensione, ancora una volta pretta­mente americana, tra atto e poten­za, materialità del presente e utopi­co sogno del futuro, trova la sua perfetta composizione nella poe­sia, che è, qui e ora, e al tempo stes­so adombra quel che sarà, quantun­que il poeta non ne abbia il pieno controllo – concetto espresso con fenomenalmente leggerissima me­tafora poetica: "Ogni scrittore è un pattinatore: deve andare in parte dove vorrebbe, e in parte dove lo portano i pattini».
Più erratico e meno fondamenta­le degli altri due è l'ultimo saggio della raccolta, «Ispirazione», an­ch’esso peraltro percorso da lampi immaginifici, e pure da sorprenden­ti professioni d'umiltà, come quella in cui l'autore invidia la capacità d'astrazione di certi studiosi, e con­fessa che i suoi occhi «sono più co­me quelli di una donna», attenti al­la concretezza e al dettaglio (e, tan­to per cambiare, quel che sembra un difetto si tramuta quasi magica­mente, poeticamente, in virtù). Qui come altrove, la preziosità dell'in­tuizione emersoniana non va cerca­ta in una (inesistente) precisione in­tellettuale, ma nel frastornante in­cedere a scarti di un pensiero che, non volendo (o non potendo) incar­dinarsi in solide architetture, prefe­risce l'icasticità aforistica, efficacis­sima per quella comunicazione ora­le cui è indirizzata gran parte delle opere in prosa di Emerson (stiamo parlando del più famoso oratore americano dell'Ottocento, una sor­ta di rock star di quei tempi che sa­peva radunare decine di migliaia di persone per i suoi discorsi): alla fi­ne, più che a una teoria filosofica della poesia, siamo di fronte a una pratica poetica della filosofia, che realizza nell'atto medesimo del pensarlo l'obiettivo della propria ri­cerca – riscattare l'inventività della parola, renderla ancora e di nuovo poiesis, creazione.