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domenica 12 luglio 2009

Singolare comune: due libri, di Friedrich Nietzsche e Ralph Waldo Emerson

APPUNTI DAL MARGINE TRA INDIVIDUI E SOCIETÀ

di Rino Genovese, "Il manifesto", 2 Luglio 2008

Il tramonto delle forme di vita comunitarie ha segnato la modernità e ha accompagnato come nodo irrisolto la democrazia. I saggi di Georg Simmel e Ralph Waldo Emerson riletti alla luce della globalizzazione I due volumi inaugurano una collana della casa editrice Diabasis dedicata a progetti di ricerca sul pensiero politico che privilegia la figura dell'essere sociale

Da dieci anni, ormai, «La società degli individui», il quadrimestrale diretto da Ferruccio Andolfi lavora - in una prospettiva filosofica, sociologica, storica - intorno alla questione forse più urgente e drammatica per qualsiasi politica che voglia dirsi di sinistra: come tenere insieme le ragioni del collettivo, della solidarietà e del legame sociale, con l'impulso alla libertà individuale, cifra caratteristica della tradizione moderna e della nostra contemporaneità. L'ultimo fascicolo della rivista (il numero 30 e di cui, per onestà recensoria, segnalo che il sottoscritto è uno dei redattori) è dedicato per esempio alla ripresa dell'idea di comunità. Non si creda, però, che il suo taglio sia di tipo «comunitarista» alla maniera americana odierna. Quella visione da liberalismo pentito di sé, alla ricerca di un radicamento territoriale - quasi un liberalismo «leghista» se mi si passa la battuta -, proprio di un certo pensiero statunitense, non fa parte del patrimonio genetico della rivista. La quale, nell'insieme, potrebbe essere piuttosto accusata dai suoi eventuali avversari di essere un periodico anarco-socialista con venature di dissenso cattolico sessantottesco.Adesso lo stesso Andolfi, con la collaborazione di Italo Testa, lancia la collana «La Ginestra. Biblioteca per un individualismo solidale» per le Edizioni Diabasis di Reggio Emilia. Si tratta di una collezione di testi agili, editorialmente ben curati, il cui scopo è rendere conto di una tradizione di pensiero sociale importante ma alquanto minoritaria nel corso degli ultimi due secoli. Un lavoro che fa tutt'uno con quello della rivista. I primi due titoli sono: Friedrich Nietzsche Nietzsche filosofo morale di Georg Simmel (pp. 128, euro 10) e Società e solitudine di Ralph Waldo Emerson (pp. 144, euro 10), il primo curato da Ferruccio Andolfi e il secondo da Nadia Urbinati.Mediocrità democraticaSimmel non è stato, come si sa, soltanto uno dei padri fondatori della sociologia, ma un filosofo a tutto tondo dal marcato accento metafisico. In questi scritti, alcuni dei quali tradotti per la prima volta in italiano, fa i suoi conti con Nietzsche, intervenendo in un dibattito che tra la fine dell'Ottocento e i primi anni del Novecento era molto acceso. Nietzsche non è per Simmel quel pensatore «immoralista» che lui stesso riteneva di essere, ma al contrario un filosofo dall'impostazione quasi kantiana, che rifiuta ogni forma di edonismo o «egoismo epicureo» per proporre una morale degli individui eccellenti, capaci di tenere sotto controllo gli impulsi e le passioni: una posizione, quella di Nietzsche, tesa ad affermare un nuovo tipo di umanità oltreumana, sottratta alla mediocrità «democratica» implicitamente connessa alla nascente società di massa ed esplicitamente annunciata dal darwinismo come trionfo del «tipo medio» a detrimento dell'individuo forte e nobile.C'è qualcosa di paradossale in questa lettura di Simmel, che pure intende sottrarre, riuscendoci, quel pensatore complesso e contraddittorio che fu Nietzsche alla vulgata che proprio in quegli anni si andava affermando. Il paradosso può essere messo in luce facendo riferimento a un kantiano molto particolare, Adolf Eichmann. Al processo di Gerusalemme (quello seguito da Hannah Arendt e di cui si possono vedere le immagini nel documentario di qualche anno fa Uno specialista), Eichmann, tra lo sconcerto generale, si dichiara discepolo di Kant e del suo «imperativo categorico». Ma come? Il criminale nazista, l'organizzatore del trasporto degli ebrei verso la «soluzione finale», seguace del più alto rappresentante dell'illuminismo tedesco? Catastrofe europeaBene, se coloro che assistevano al processo, e la stessa Arendt, avessero avuto sotto mano queste pagine di Simmel forse non si sarebbero stupiti più di tanto. L'imperativo categorico kantiano - con la rottura che propone nei confronti di qualsiasi inclinazione sensibile e di qualsiasi compassione rivolta al sofferente - ha già in sé il germe della crudeltà. Se infatti, per affermare la giustizia, il mondo può anche perire, non c'è spazio per la pietà; anzi, questa diventa un fardello da cui la morale, fondata sull'idea di giustizia, deve sbarazzarsi. E se lo slogan in cui si può riassumere l'imperativo categorico - «opera facendo in modo da trattare l'essere umano sempre come un fine, mai soltanto come un mezzo» - viene inserito nel disegno razzista di epurazione dell'umanità da quegli elementi della sua degenerazione che per i nazisti erano gli ebrei, si può allora arrivare a credere di compiere la suprema giustizia organizzando lo sterminio di massa. Il che, d'altronde, non vuol dire utilizzare l'essere umano come un mezzo, perché agli ebrei veniva negata proprio l'umanità, e anche perché distruggere gli individui in quanto appartenenti a un collettivo indistinto, a una razza, non è esattamente usarli come mezzi. È l'indurimento nello svolgimento del proprio compito l'elemento «kantiano» rivendicato da Eichmann. Ma al tempo stesso senza una morale degli individui eccellenti, che pone alcuni su un piano di superiorità rispetto ad altri, senza l'ossessione di sottrarsi al «gregge» in una società dentro cui irrompono le masse, senza l'aristocratismo disperato di chi sa che qualsiasi aristocrazia derivante dalla nascita è in via di liquidazione, non sarebbe pensabile questa paradossale forma di kantismo.L'illuminismo si rovescia nel suo contrario grazie a una mistura di Kant più Nietzsche. Il quale - sia chiaro - aveva sì mostrato la necessità per l'illuminismo di procedere a un'autocritica, ma non aveva in alcun modo predetto che si dovesse cancellare l'illuminismo stesso mediante il razzismo e l'antisemitismo, limitandosi a vagheggiare una morale dei forti.Ciò che insomma si può leggere in filigrana nelle pagine di Simmel dedicate a Nietzsche è né più né meno che l'annuncio della prossima catastrofe europea. Qualcosa che riguarda in modo precipuo il vecchio continente. Si pensi che qui la critica della cultura o della civiltà di marca conservatrice (per esempio, in uno come Ortega y Gasset) non fa distinzione tra democrazia e fascismo: entrambi sono regimi politici che conoscono al loro interno l'odiatissima massificazione, la perdita di sé dell'individuo. Questo aristocratismo di ritorno - in fondo connivente con la catastrofe - è al contrario sconosciuto negli Stati Uniti. In questo paese l'«essere di massa» è stato considerato fin da subito il banco di prova in un certo senso naturale dell'individualismo moderno: al punto che lo specifico individualismo collegato alla cosiddetta civiltà dei consumi, del cui avvento si potrà parlare in Europa solo a partire dal secondo dopoguerra fino ai giorni nostri, sarà vissuto per lo più come un'americanizzazione del vecchio continente.Un pastore della societàPer cogliere la differenza è sufficiente sfogliare le pagine di Emerson. Come nota Nadia Urbinati nel saggio introduttivo, Emerson può essere considerato l'antesignano di una linea di pensiero che, passando per il pragmatismo di William James e Dewey, arriva fino a John Rawls e alla sua teoria della giustizia distributiva. Il punto centrale consiste qui nell'idea che ciascuno ha da essere considerato niente di più che un individuo, senza tener conto di alcuna prerogativa di nascita o di status, mentre al tempo stesso soltanto nel riconoscimento delle sue capacità entro un contesto sociale è possibile la sua autentica affermazione. In altre parole, è l'idea del cittadino democratico come ci viene da quel paese, gli Stati Uniti, che per primo pose la questione dei diritti come aspetto cruciale della convivenza civile. In Emerson, che era stato all'inizio un pastore protestante e che scrive nel cuore dell'Ottocento, si può quindi trovare la potenza per così dire sorgiva dei «padri pellegrini» che hanno fatto l'America e il suo mito.Ma, appunto, la potenza sorgiva, i cui prolungati effetti hanno sì messo al riparo nel Novecento l'America (del nord) dalla catastrofe propria della storia europea, ma la cui spinta propulsiva appare ormai interrotta e come dissipata. Si pensi anche semplicemente a com'è andato mutando il ruolo delle sette religiose: da momenti di interazione comunitaria a strumenti di propaganda ideologica attraversata da forme di fondamentalismo uguale e contrario a quello che si riscontra in altre parti del globo. Leggere Emerson oggi, respirare l'atmosfera in cui è avvolto, insieme democratica e spirituale, ci riporta a un'America che non c'è più: un po' come guardare un vecchio dagherrotipo.



Su questi temi si vedano anche:

Ralph Waldo Emerson, il padre degli USA

Storia di un “filosofo con il megafono” dalla scrittura schietta e clamorosa. Che divenne il vero Cicerone americano

Tutti, volenti o nolenti, passarono da lui, perché lui poteva fare di un comune mortale un Cesare. Riflessioni

di Davide Brullo, da "Il domenicale", anno 2005.

Per fortuna che ogni tanto nasce un Cicerone. Lingua asciutta e schietta, filosofia spiccia. C’interessa ciò che siamo e come andiamo. Il “dove” lo si lasci ai teologi di quart’ordine. E i pensieri iperuranici tutti a Platone, e le sottigliezze minute minute tutte ad Aristotele. A noi garba la filosofica semplicità. Secolo passa secolo, in un passaggio di testimone che più in là di così non può andare, Roma si trasfigura negli States, lungo un impero diversificato ma dalle fondamenta solide che collega New York a Los Angeles e tanta prateria in mezzo. Che assorbe e rifà quanto ha messo a dottrina la Grecia-Europa. A loro, gli europeini verso cui soffriamo ancora di qualche complesso d’inferiorità (i romani buoni prendevano lezione dai greci dopo averli schiacciati), il pensiero pensante, a noi il pensiero che agisce. E gli Usa il loro Cicerone ce l’hanno avuto, e di che schiatta. Ralph Waldo Emerson (1803- 1882), ovvero, il filosofo con il megafono. Che scrive che a leggerlo è come bere ampie sorsate di aureo succo, che parla dai pulpiti di mezza America, che getta pistolettate di pensieri buoni all’uso alla pari di un rappresentante di miracolosi farmaci. Se vuoi capire il genio americano rivolgiti a lui. E comincia a leggere i suoi celebri saggetti radunati ora sotto il titolo Diventa chi sei (sprigionante azione e pionierismo da tutti i pori rispetto al contemplativo e grecissimo “conosci te stesso”) da Stefano Paolucci, che ne fa una curatela ottima e calorosa (Donzelli, Roma 2005, pp.148, e12,50). Amo tutti i tuffatori... Tutti son passati da lui, o quantomeno gli hanno sfiorato la mano. Hawthorne lo stimò assai, la Dickinson, pur sempre distante dai vaniloqui del mondo, probabilmente ci pranzò assieme e assistette a una sua conferenza, nel 1857, l’anno in cui di lei sappiamo pochissimo, se è vera quella frase tramandata dai familiari per cui avrebbe detto che egli, il grande savio degli States, era «come se fosse uscito da dove i sogni sono nati». Inutile dire di Henry D. Thoreau che mette in pratica e per scritto i consigli del maestro, a casa del quale campeggiò più di un giorno. Inutile dire del grandioso Walt Whitman, che fu il Lucrezio di Emerson, nel senso che di questo si direbbe molto meno, come per Epicuro, se non avesse avuto il suo obliquo cantore. Di cui riconobbe immediatamente il talento: fu l’unico, il 21 luglio 1855, a scrivere una lettera di felicitazioni dopo la lettura del “perverso” Foglie d’erba. Pare che però se la ebbe a male quando Walt decise di apporre la lettera a mo’ di preludio alla seconda edizione del libro. Microscopie. Fatto è che dallo stesso arbusto cresce fogliame d’ogni genere. E Melville? Lo gnostico geniale e distrutto dal proprio genio non spartisce niente con nessuno, tranne con Shakespeare e il Testo Sacro (e certe smancerie ad Hawthorne). Una concessione gliela facciamo, però. All’epoca di Mardi, che non fosse per l’impegno critico di Ruggero Bianchi nessuno conoscerebbe in Italia (la sua curatela al libro, esempio raro di precisione analitica e affettiva, fu edita da Mursia, Milano 1987), uno dei libri melvilliani assieme a Pierre che i critigonzi fanno fatica a capire anche oggi che son passati centocinquant’anni, cioè attorno al 1849, Melville scrive a Evert A. Duyckinck, uno dei suoi radissimi amici, che il pensatore «è un grand’uomo », e poi, in altra lettera e più lungamente, fiorisce il discorso così: «Diciamo pure, per amor di discussione, che Emerson sia uno sciocco: in questo caso preferisco essere uno sciocco anziché un saggio. Io amo tutti gli uomini che sanno tuffarsi. Qualsiasi pesce è capace di nuotare in prossimità della superficie; ma ci vuole una grande balena per scendere a cinque miglia e più di profondità». Poi, però, chiude la pratica scrivendo di «non vibrare nell’arcobaleno di Emerson», e abbozzando una spigolosa caricatura del filosofo, definendolo un «Platone che parla nel naso». Sbruffonerie da chi si allena a divenire un santo. Il famosissimo emersoniano Fiducia in se stessi è una specie di manuale per il perfetto yankee. E che i pionieri avrebbero fatto bene a tenersi in saccoccia. Che respiro ampio, che bontà vera. E che sculacciate a quanto non è originariamente umano, e perciò originariamente “americano”. Alle spine i malcelati complessi d’essere poco più che figli bastardi della ricca Europa, «Noi dobbiamo procedere da soli»; «la storia è danno e impudenza se vuol essere qualcosa di più di un ridente apologo o di una parabola del mio essere e del mio divenire». Che preziosi quei diamanti del tipo «insisti su te stesso; non imitare mai», come ci si amplia il petto, e ci s’impilano i muscoli al sentire tali assiomi: «è solo quando un uomo si sbarazza di ogni sostegno a lui estraneo e sta in piedi da solo, che io posso vederlo forte e vincente». Io sono Michael Jordan Curiosità bibliografica svelataci da Paolucci: in epoca fascista, in cui imperava il training autogeno, Emerson era dato in pappa agli scolaretti. E chi non vorrebbe come maestro uno che, siamo alle Leggi spirituali, ti tirava su il morale dicendoti che «questa sopravvalutazione delle possibilità di Paolo e di Pericle, questa sottovalutazione delle nostre personali possibilità deriva dal trascurare il fatto che esiste una natura identica». Il sangue che scorre in questa vena è lo stesso che scorreva in Eschilo e Cesare, in Napoleone e in Michael Jordan. Emerson sembra uno di quegli allenatori stravincenti, un Pat Riley, un Fabio Capello, che sanno come galvanizzare i propri (chi non lo sa che il distacco tra il primo e il secondo non è nelle gambe ma nella testa?). Del tipo, ragazzi, qui, ora, adesso, come mai prima, lottiamo per l’eternità. Che bello un tempo in cui matematicamente funzionava la regoletta per cui «se un uomo sa di saper fare qualcosa, e sa di poterla fare meglio di chiunque altro, egli ha la garanzia che tutti quanti riconosceranno questo fatto». Mentre oggi tutto dipende da “cosa” sai fare, e c’è un tale pasticcio d’idee per cui a mala pena si riesce a riconoscerla un’opera di genio. Ma lì, nel tempo emersoniano, nel tempo del sogno americano e di una frontiera ricca di scoperte «un uomo è considerato per quel che vale. Ciò che egli è sta inciso a lettere di fuoco sul suo volto, sulla sua forma, sulle sue esperienze. Né il celarsi né il vantarsi gli servono a nulla». E così il lavoro maieutico del sapiente Ralph resta inciso nelle pagine del suo diario, in una riga del 1839: «Inviterò gli uomini immersi nel tempo a ritrovare se stessi e ad uscire dal tempo per gustare la loro nativa aria immortale». Che bello, pare di ringiovanire, iscriviamoci alla Setta dei Poeti Estinti, rivediamoci L’attimo fuggente di Peter Weir, con i marmocchi che vogliono una vita silvestre come Thoreau, e berciano mimando Emerson, e canticchiano come il barbuto Walt «O Capitano! mio Capitano! il nostro viaggio tremendo è finito,/ La nave ha superato ogni tempesta, l’ambito premio è vinto ». I tempi del sogno americano. Presto abortiti. Già l’energia galvanizzante ed emersoniana di Melville è votata a scrutare il maligno. Con gli altri è rovina. Faulkner, Caldwell e i “perduti” intaccano all’osso l’allegria dei pionieri. Il sogno s’è fatto incubo. L’unico emersoniano fino al caramello, prosa larga, pelagica, divorante anche l’oscurità è Thomas Wolfe. Semplicemente, il demonio Per Robert Penn Warren, appuntito critico d’America, ma soprattutto poeta non da poco e perciò introvabile nei banconi di casa nostra, Emerson, glielo aveva suggerito Allen Tate, era semplicemente il demonio. E ci credo, con quell’idea che anticipa la New Age per cui ogni testo sacro è sacro, che il dio è il dio di tutti e che Ralph chiama con il nomignolo di “Over- Soul”, cioè superanima, che leggi la Bibbia o il Corano o i Veda e in entrambi vedrai la verità, e che il dio semmai lo trovi da te senza nessun parroco che t’imbocchi a proposito... ce n’è da far saltar per aria non solo i bacchettoni. Quella fiducia, poi, che spazzava la tradizione tutta, faceva tremare le ginocchia (e se ne abusò, a destra come a sinistra). E quella balorda idea della Compensazione, invero lo sforzo filosofico più acuto di Emerson e di più larga gestazione, per cui «ogni atto reca in sé la propria ricompensa, o, in altre parole, integra se stesso», cioè: «colui che compie una buona azione ne è immediatamente nobilitato. Colui che compie un’azione meschina è limitato dall’azione stessa. Colui che si spogli dell’impurità si veste conseguentemente di purità. Se un uomo è giusto nel profondo dell’animo, nella misura in cui lo è, egli sarà allora Dio: la salvezza di Dio, l’immortalità di Dio, la maestà di Dio entrano in quell’uomo con la giustizia»? Le cose partono da lontano, dall’8 febbraio 1831. A diciannove anni Ellen Louisa Tucker, con cui un Emerson in attesa di diventare Emerson si era sposato un anno e mezzo prima, muore. È la batosta che inaugura una nuova vita. Alla base del retto conoscere c’è un grave dolore direbbe Eschilo. In questo caso il dolore viene assorbito velocissimamente, almeno all’apparenza. Due ore dopo la morte di Ellen, Ralph scrive alla zia paterna Mary Moody Emerson una lettera di questo tipo: «Il mio angelo è andato in cielo questa mattina & io sono solo al mondo & stranamente felice». Pensare è agire avrebbe detto di lì a poco il famosissimo conferenziere. Dalle parole ai fatti. Liberatosi (si fa per dire) della moglie, Emerson salpa per l’Europa, ci fa i conti, e torna vincitore e pieno di grandi idee negli States. In Compensazione scrive: «La morte di un caro amico, di una moglie, di un fratello, di una persona che amiamo, che all’inizio non sembrava altro che privazione, più tardi assume l’aspetto di una guida o buon genio; poiché tali eventi operano solitamente delle rivoluzioni nel nostro modo di vivere, terminano un’epoca di infanzia o di giovinezza che aspettava solo di essere chiusa, mandano all’aria un’occupazione abituale, o l’unità della famiglia, o uno stile di vita, e ne permettono la formazione di nuovi, più adatti alla crescita del carattere ». Già, magari per spiriti dotti e ampi come quelli di Emerson. Ma a noi eterodossi la cosa fila poco, siam più desti a vedere come degli idioti quelli che in vita sperano che il maltolto gli verrà restituito. E poi, caro Ralph Waldo, creatore di una beata scappatoia, non è che così si risolvono gli interrogativi di Giobbe o di Davide. A lezione da Shakespeare L’uomo che vedeva nel genio di Shakespeare il precursore del genio americano, sublime condottiero dell’europeità ma pure alfiere di ciò che sarebbe sorto, per cui «Shakespeare è escluso dalla categoria degli autori eminenti quanto lo è dalla folla. È inconcepibilmente saggio, gli altri lo sono concepibilmente. Un buon lettore può, fino a un certo punto, rannicchiarsi nel cervello di Platone e pensare da lì, ma non in quello di Shakespeare. Siamo ancora fuori. In termini di facoltà esecutiva, di creazione, Shakespeare è unico», quest’uomo così accorto non seppe vedere il genio che scandaglia il male (un male inestirpabile, incoerente, necessario) del sommo inglese. O non lo volle vedere. Ergo: non è che Riccardo III sia una scolaretta che va per margherite. Pietà per Emerson, non è degli uomini sapere e vedere ogni cosa. Un uomo come Ralph, un uomo che ci riconcilia con il mondo, facendo slalom tra pensierini foderati d’oro che fanno il verso alla sapienza orientale (parafrasi dalla Bhagavad-gita: «Azione e inazione sono uguali al cospetto del vero») è foriero d’indicazioni letterarie che spesso non mancano il bersaglio. Questa, ad esempio, adatta a rimettere in riga i critigonzi e gli aspiranti scrittorelli: «Non esiste fortuna nella reputazione letteraria. Chi emette il verdetto finale nei confronti di ogni libro non sono i parziali e rumorosi lettori del momento in cui esso viene pubblicato, ma una corte di angeli, un pubblico che non può essere né corrotto, né supplicato e né intimidito decide sul titolo alla fama di ogni uomo. Quaggiù arrivano solo quei libri che meritano di durare». In faccia a chi pensa che un libro è di peso perché ha sbancato il banco delle vendite. Poi, sia chiaro, anche il padre della patria Ralph pecca di troppa fiducia nei propri mezzi. Ad esempio quando dice che valoroso scrittore è colui che scrive direttamente dal “cuore”, in verità e adesione a se stesso. Così, al limite, si potrà scrivere un buon diario di bordo. Il cuore andrà limato almeno con la mente. Che Emerson ripassi il suo eroico Shakespeare.