venerdì 10 luglio 2009

La democrazia delle visioni. Tre saggi sull’“essere poeta” di Ralph Waldo Emerson

di Valerio Massimo De Angelis, “Il Manifesto”, 15 marzo 2008

Sarà pur vero che Waldo Emerson «si e sempre consi­derato poeta» («di basso rango, sen­za dubbio», si trova però a confida­re alla moglie Lydia), e che numerose sono le attestazioni di stima per le sue doti di poeta da parte di espo­nenti della cultura americana ed eu­ropea. Nella sua introduzione alla bella traduzione di tre saggi di Emerson sulla poesia («Il poeta», «Poesia e immaginazione» e «Ispira­zione», raccolti in Essere poeta, Moretti & Vitali, pp. 109, € 16,00), Beniamino Soressi giustamente lo sottolinea, e chiama in suo soste­gno personalità come Robert Frost, William James, Nietzsche e Borges.

Sta di fatto che sono assai più fre­quenti le sommarie liquidazioni di una produzione poetica che certo non regge il confronto con quella dell'entusiasta discepolo di Emer­son, Walt Whitman. Lo stesso Sores­si ricorda come anche le lodi di Ha­rold Bloom si riferiscono più al filo­sofo della poesia che non al poeta in quanto tale. E comunque non sa­rà un caso che il libro che ripropo­ne il più influente pensatore ameri­cano, se non proprio il più grande, all'attenzione di un pubblico italia­no comunque poco propenso a se­guire i voli pindarici di un'immagi­nazione ostinatamente refrattaria alla sistematicità razionale (che è poi quel che si vorrebbe da un filo­sofo), non si arrischi ad addentrarsi nell'universo poetico di Emerson, ma in quello delle sue riflessioni sul­la poesia.
In effetti; l’impressione che non di rado si ottiene nel leggere Emer­son è che, detto brutalmente, se la sua poesia e troppo filosofica, la sua filosofia è troppo poetica, con la differenza che l’avvitamento in cervellotiche meditazioni appesantisce inesorabilmente gran parte della sua produzione in versi, men­tre è proprio lo scatto deviante, eversivo, sostanzialmente illogico del poeta a trasformare le – eviden­ti – ambiguità e aporie del suo pen­siero in feconde aperture verso nuo­vi e inattesi orizzonti di senso. Nei tre saggi raccolti in Essere poeta la
componente visionaria del fondatore del Trascendentalismo si impone con la forza di chi concepisce l'atto poetico non co­me controllato esercizio di stile (anche se poi, paradossalmen­te, tali appaiono all'occhio e all’orecchio proprio le sue com­posizioni poetiche, rigidamente inquadrate in tradizionalissime forme metriche), ma come erompere spontaneo della scintilla dell’ispirazione che risiede in misura maggiore o minore in ogni singolo individuo, oltre ogni distinzione e gerarchia di classe, sesso, razza, persino cultura. Ci vorrà poi un Whitman per tradurre in modo davvero adeguato, nel suo alluvionale linguaggio paratattico, la vena profeticamente rivo­luzionaria di questa filosofia democratica della poesia, che tut­to accetta e nulla rifiuta, a partire dalle sue proprie contraddi­zioni -«Mi contraddico? / Benissimo, allora mi contraddico / (sono ampio, contengo moltitudini)», scriverà Whitman in «Canto di me stesso», quando pubblicherà la prima edizione di Foglie d'erba, nel 1855, seguendo esplicitamente i precetti dettati nel 1844 da «Il poeta»).

L'intenzione radicalmente egua­litaria di Emerson si manifesta fin dalle primissime parole di questo imbizzarrimento di una parola che si scioglie dalle briglie dell’ordi­ne logico e grammaticale, per riven­dicare con passione esplosivamen­te metaforica che «noi non siamo né bracieri ne carriole e neanche corrieri del fuoco e tedofori, ma fi­gli del fuoco, fatti di fuoco, e nient'altro che la stessa divinità trasmu­tata, e a due o tre passi appena da noi, quando meno lo sappiamo». Questo 'noi' si riferisce sia all'umanità universale sia, più specifica­mente, al popolo dei poeti (quan­tomeno potenziali), cui spetta nien­temeno che il compito di legiferare, in quanto supremi «Nominatori», sulla configurazione del mondo, creandolo nel mentre ad esso dan­no voce, perché «il poeta è colui che può articolarlo». Nell'ambigui­tà di questa formulazione del “potere della poesia” sta quella du­plicità della concezione tutta ameri­cana della democrazia e dell'ugua­glianza, e delle modalità attraverso le quali devono essere garantite dall'autorità, per cui se tutti siamo uguali e ugualmente possiamo partecipare all'universo simbolico che è in fondo il vero orizzonte della vi­ta («Noi siamo simboli e abitiamo simboli; lavoratori, operatori e ope­rai, lavoro e opere, arnesi, parole e cose, nascita e morte, tutti sono em­blemi»), non tutti tuttavia riescono a usare questi simboli «in modo ori­ginario» (il testo 'originale' recita «they carnnot originally use them»; il traduttore ha scelto 'originario' anziché 'originale', obbligato co­m'è a scindere la polisemia del ter­mine inglese, ma qui Emerson im­plica che il poeta è sia chi dà origi­ne al mondo con il primo uso di un simbolo, sia chi riesce a usarlo in modo diverso, inusuale, 'nuovo'). L'uguaglianza delle opportunità non corrisponde, in poesia come nella vita o nella politica, all'ugua­glianza delle realizzazioni, e meno che mai all'uguaglianza del potere. Quando Francis Otto Matthiessen osserva in Rinascimento americano che per Emerson il «valore fonda­mentale del simbolo per il poeta sta nel fatto che «costringe il lettore a essere coinvolto nel processo poe­tico», implicitamente sottolinea co­me tale processo non sia paritario, e come le regole del gioco siano in qualche modo imposte dal poeta al lettore.
A trent'anni di distanza da «Il po­eta», Emerson torna a elaborare la sua filosofia della poesia negli altri due saggi della raccolta, finora ine­diti in Italia, e pubblicati in Letters and Sacial Aims (1876). In «Poesia e immaginazione» il filosofo si avventura, secondo una pratica per lui ab­bastanza inconsueta, nella disami­na di questioni eminentemente tec­niche, discettando con competen­za di tropi e metri, e recuperando la distinzione coleridgeana tra l'«im­maginazione», che è una facoltà creativa e «centrale», e la «fantasia», che invece «riguarda la superficie». La poesia è qui sia quella «gaia scienza» che conquisterà Nietzsche, sia una «fede», perché è «scritta con un umano dovrebbe o sarebbe, anziché con il fatale è»: la tensione, ancora una volta pretta­mente americana, tra atto e poten­za, materialità del presente e utopi­co sogno del futuro, trova la sua perfetta composizione nella poe­sia, che è, qui e ora, e al tempo stes­so adombra quel che sarà, quantun­que il poeta non ne abbia il pieno controllo – concetto espresso con fenomenalmente leggerissima me­tafora poetica: "Ogni scrittore è un pattinatore: deve andare in parte dove vorrebbe, e in parte dove lo portano i pattini».
Più erratico e meno fondamenta­le degli altri due è l'ultimo saggio della raccolta, «Ispirazione», an­ch’esso peraltro percorso da lampi immaginifici, e pure da sorprenden­ti professioni d'umiltà, come quella in cui l'autore invidia la capacità d'astrazione di certi studiosi, e con­fessa che i suoi occhi «sono più co­me quelli di una donna», attenti al­la concretezza e al dettaglio (e, tan­to per cambiare, quel che sembra un difetto si tramuta quasi magica­mente, poeticamente, in virtù). Qui come altrove, la preziosità dell'in­tuizione emersoniana non va cerca­ta in una (inesistente) precisione in­tellettuale, ma nel frastornante in­cedere a scarti di un pensiero che, non volendo (o non potendo) incar­dinarsi in solide architetture, prefe­risce l'icasticità aforistica, efficacis­sima per quella comunicazione ora­le cui è indirizzata gran parte delle opere in prosa di Emerson (stiamo parlando del più famoso oratore americano dell'Ottocento, una sor­ta di rock star di quei tempi che sa­peva radunare decine di migliaia di persone per i suoi discorsi): alla fi­ne, più che a una teoria filosofica della poesia, siamo di fronte a una pratica poetica della filosofia, che realizza nell'atto medesimo del pensarlo l'obiettivo della propria ri­cerca – riscattare l'inventività della parola, renderla ancora e di nuovo poiesis, creazione.

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