domenica 12 luglio 2009

La riscossa di Emerson

di Stefano Paolucci

«Vi è nell'anima dell'uomo la persuasione che egli è qui per una causa, che fu posto quaggiù dal Creatore per compiere l'opera a cui esso lo ispira, e che quindi egli è superiore a ogni antagonista che potrebbe mettersi in combutta contro di lui.» Parola di Ralph Waldo Emerson. Lo scriveva nel bellissimo saggio sul "Coraggio" contenuto nel volume Society and Solitude (1870), uno degli ultimi che pubblicò. Personalmente mi ricorda un motto latino derivato dall'Epistola ai Romani di San Paolo: Si Deus pro nobis, quis contra nos? In buona sostanza, Emerson ha proclamato questa idea per tutta la vita, sia dalle pagine dei suoi libri che dal podio del conferenziere. Un'idea che non nasceva nell'algido regno della creazione intellettuale, né proveniva dal tiepido limbo del prestito accademico, ma era l'ardente irradiazione della propria quotidiana esperienza dell'anima e della sua complice unione con la fonte divina. Per questo è sopravvissuta. E per questo desta ancora interesse.Un interesse, bisogna dire, che si è risvegliato particolarmente in Italia negli ultimi tempi. Il letargo è durato fino all'anno del bicentenario del filosofo americano, nato a Boston nel 1803 e morto a Concord nel 1882. Risale infatti al 2003 l'uscita di due titoli, presso l'editore Ibis di Como, che hanno dato il via a una serie di pubblicazioni di e su Emerson che si stanno dimostrando sempre più valide e interessanti. L'anno successivo Beniamino Soressi, giovane ricercatore universitario e valente traduttore, dà alle stampe la sua tesi sul pensiero filosofico di Emerson: Ralph Waldo Emerson. Il pensiero e la solitudine (Armando). Nel 2005 è il mio turno con la curatela del volume Diventa chi sei (Donzelli), in cui ho voluto ri-unire, come in un vademecum, tre saggi essenziali di Emerson: "Fiducia in se stessi", "Compensazione", "Leggi spirituali" [il libro è disponibile nelle nostre biblioteche, ndr]. Nel 2006 sboccia un autentico florilegio emersoniano nella nostra lingua. Con Lo studioso americano e altri saggi (B.A. Graphis), Vito Amoruso - il quale negli Anni '60 ebbe il merito di tradurre per la prima volta in italiano una ricca selezione dai diari di Emerson - ripesca quattro scritti già noti mettendo in luce la «forma rapsodica» del saggismo di Emerson: quella sua voce che è sempre chiamata a esprimere un transito, un passaggio, un cambiamento, dove risiede la vera forza dell'uomo e dove si svela il suo carattere. E La sfida del carattere. Nietzsche lettore di Emerson (Editori Riuniti) è una vera rivelazione del 2006, di cui è autrice Benedetta Zavatta, un'altra giovane ricercatrice e traduttrice «con i numeri». Con questo studio appassionato quanto rigoroso - e, a mio avviso, destinato a diventare un testo di riferimento in lingua italiana (esemplare il capitolo "Il cerchio della necessità") - l'autrice dimostra come l'«amicizia stellare» tra Nietzsche e il saggista americano, durata oltre venticinque anni, investa gli assi portanti della filosofia nietzscheana e ne scandisca le tappe fondamentali, mostrando in tutta la sua ampiezza una relazione la cui importanza è stata per lungo tempo sottaciuta; al tempo stesso, la lettura nietzscheana aiuta a scoprire un lato inedito di Emerson, scettico e pragmatista, arricchendo il volto «eroico» della sua filosofia e liberandola dallo stereotipo di un superficiale ottimismo. Beniamino Soressi torna a occuparsi di Emerson curando Realizzare la vita. Saggi da Society and Solitude (Il Prato), che contiene quattro saggi inediti in italiano e quattro ritradotti dopo quasi un secolo, tra cui, appunto, "Coraggio". La questione che questa raccolta vuole sollevare riguarda da vicino il nostro quotidiano, ed è: come realizzare la vita, sia affermandola nelle azioni e nelle concezioni, sia apprezzandone la pienezza nelle percezioni? Si inizi col leggere il saggio sul "Successo"... Sul finire del 2007 Soressi cambia casa editrice ma non l'oggetto del suo interesse; per i tipi di Moretti&Vitali, cura Essere poeta, contenente due saggi di Emerson mai tradotti in italiano - "Poesia e immaginazione" e "Ispirazione" - più il celebre saggio "Il poeta". "Poesia e immaginazione" è uno dei pezzi più brillanti dell'ultimo Emerson, in cui definisce la sua poetica e approfondisce il concetto di poesia studiando da dove essa scaturisce. Con "Ispirazione", invece, riflette sull'origine del poetare ed offre persino un decalogo di consigli pratici («La salute è la prima musa»... ). Infine è di questi mesi l'uscita di un delizioso volumetto, a cura di Nadia Urbinati, in cui sono raccolti sei saggi provenienti da opere diverse di Emerson, e quindi risalenti anche ad epoche diverse, che hanno in comune il desiderio di mostrare e far cogliere il delicato equilibrio che Emerson ha sempre di più stabilito tra istanze sociali e fiducia in se stessi, tra il bisogno di comunicare e condividere e l'esigenza di isolamento e concentrazione. Società e solitudine, questo il titolo del libro pubblicato da Diabasis, nasce in seno a una nuova collana - La Ginestra - che si propone di raccogliere i classici dell'«individualismo solidale», per (di)mostrare che l'autentico individualismo non significa affatto "egoismo" ma l'esatto contrario, e che la coesione della società non confligge ma va di pari passo con la cura di sé di individui emancipati, ovvero più consapevoli. Emerson pone tutto ciò su uno sfondo metafisico dove è preminente l'idea neoplatonica di una "Superanima" (altro celebre saggio-manifesto presente nel libro) in cui l'essere particolare di ogni uomo è contenuto e reso tutt'uno con gli altri.Mi piace concludere questa breve rassegna citando proprio dal saggio che dà il titolo a questo libro, "Società e solitudine", in cui Emerson, ormai anziano, risolve così il conflitto esistenziale che forse più di tutti, e da sempre, agita l'animo umano: «La solitudine è impraticabile e la socialità è fatale. Dobbiamo tenere la testa nell'una e le mani nell'altra. La condizione per riuscirci è conservare la nostra indipendenza senza perdere la simpatia».Essere, appunto, solidalmente individualisti.
____________________________________
Self Reliance. La fiducia in se stessi, A cura di Marco Sioli, Ibis, Como 2003
Dalla Sicilia alle Alpi
A cura di Marco Sioli, Ibis, Como 2003
Diventa chi sei. Fiducia in se stessi, Compensazione, Leggi spirituali
A cura di Stefano Paolucci, Donzelli, Roma 2005
Lo studioso americano e altri saggi
A cura di Vito Amoruso, B.A. Graphis, Bari 2006
Realizzare la vita. Saggi da Society and Solitude
A cura di Beniamino Soressi, Il Prato, Padova 2006
Essere poeta
A cura di Beniamino Soressi, Moretti&Vitali, Bergamo 2007
Società e solitudine
A cura di Nadia Urbinati, Diabasis, Reggio Emilia 2008




Su questi temi si vedano anche:

Chi ha paura di Ralph Emerson?

Lettera aperta a Dacia Maraini, di Ermanno Bartoli,* anno 2000

Carissima Dacia Maraini, mi chiamo Ermanno Bartoli; per vivere ho un lavoro dipendente e per hobby scrivo racconti e poesie. Recentemente ho pubblicato a mie spese (lo confesso) una raccolta di racconti dal titolo "Prima dell'alba". Però mi trovo a scriverle per "lamentare" con forza la discriminazione editoriale che vien fatta in Italia nei confronti di un grande filosofo come Ralph Emerson: padre della "Fiducia in se stessi" e scrittore e poeta pressoché impubblicato. Se penso che uomini come Gandhi, Martin Luther King e Malcom X gli riconoscono un contributo notevole alla loro personale formazione... mi vien proprio da arrabbiarmi. Colui che disse "Niente è infine sacro al di fuori dell'integrità della mente", evidentemente non è "idoneo"; evidentemente lo è molto di più uno come Nietzsche, che viene pubblicato tutti i santi giorni a ogni pausa pranzo. Da amante del Trascendentalismo (bell'esempio di censura - e non metto le virgolette - sono anche i poeti e scrittori di tutto il trascendentalismo americano e del romanticismo inglese) spererei ben altra sorte. Molti affermano che in Italia, come nel resto del mondo, l'editoria pubblica soltanto ciò che si vende; io credo, al contrario, che in Italia, quando si tratta di certa letteratura "colta", si pubblica soltanto ciò che si vuole che venga comprato e magari letto. Basterebbe il richiamo a Gandhi per suscitare interesse... Trovo grave che dei due maggiori filosofi dell'800, uno (Nietzsche) lo si trovi anche negli autogrill, domani magari anche nelle patatine... mentre l'altro: nisba. Ma in Italia c'è il diritto di leggere? Glielo chiedo quale uomo che ha molta stima di lei; glielo chiedo perché grazie a qualche sito Internet, gente che si è avvicinata ad Emerson (anche persone che non condividono la sua visione divina della vita) è rimasta a bocca aperta e con le lacrime agli occhi. Ci terrei tanto a un suo parere; così come ci tengo a dire che non ce l'ho con Nietzsche ma con chi lo propina in continuazione. Se in Italia c'è libertà di lettura, allora sono qui a rivendicare una qual certa pari dignità tra autori che, per valore, non vedo così abissalmente distanti come i dati editoriali paiono affermare. Anzi... per me Emerson rappresenta una voce nuova che meriterebbe d'essere ascoltata. [...]


*Ermanno Bartoli, autore di racconti e romanzi. La sua ultima raccolta pubblicata è "Una voce dal nulla". Collabora al sito http://www.simonel.com/, dell'editore Simonelli (presso il quale tiene una rubrica dedicata ai "Desaparecidos letterari") e a http://www.nonluoghi.it/, che ospita alcuni suoi interventi su Emerson e altri autori, come Robert Frost.

Uno scrittore dell’ottocento che parla all'anima del terzo millennio

Alcuni saggi dell'ultimo Emerson

Realizzare la vita, di Ralph Waldo Emerson, - edito da Il Prato (2007), a partire da saggi del 1870 - raccoglie testi che non possono non cogliere di sorpresa anche il lettore più nutrito di classici filosofici. Quest’opera è tanto abissalmente inattuale e insieme attuale che pare incredibile come una simile raccolta di Emerson non sia mai stata pubblicata finora (tranne quattro di questi saggi, ma nel lontano 1913). Questo libro è un viaggio lungo la nostra vita quotidiana, verso una realizzazione dell’esistenza che non è né puramente estetica né puramente etica. Ma non è tanto un viaggio nelle pianure dell’esistenza mondana quanto un’arrampicata verso le vette del filosofare, come quando Emerson discute il problema abissale della tecnica, del fare e del tempo, nel saggio più rappresentativo e intenso fra questi, “Le opere e i giorni”; oppure come quando questa scrittura prende l’America del suo tempo per la coda, mettendo alla berlina le sue fisime, le sue manie, la sua anima ipertecnica e votata a forme volgarizzanti di ‘successo’ e la sua diffusa pavidità, che moltiplica le paure, tantopiù oggi, in anni di terrorismo internazionale e mediatico.La lingua di Emerson è limpida come quella di un classico latino e incisiva come un aforisma di Nietzsche o di Montaigne, tanto che in certi passi riesce a lambire il grande stile. Con questi ultimi condivide un pensare antiaccademico, errabondo, un idealismo concreto. Vista nel suo complesso, questa inedita impresa filosofica è una traversata – tentata un secolo prima di Heidegger e quando Nietzsche era un imberbe ragazzino – del pelago del nichilismo, oltre quello Schopenhauer e quel buddhismo rinunciatario la cui ombra incombeva sull’anima dell’occidente. E, se mai esisterà terraferma, Emerson sembra approdare a una sorta di nuovo rinascimento.
Ralph Waldo Emerson, Realizzare la vita. Saggi da Society and Solitude. Il Prato 2007

Anche Benigni legge Ralph Waldo Emerson

Benigni rivela: "Ecco tutti i poeti che hanno scritto la mia Tigre"
di ROBERTO BENIGNI, (23 maggio 2006)
IL TALMUD inizia a pagina 2 proprio per indicare al lettore che anche quando avrà finito di leggerlo non avrà ancora cominciato.E Machiavelli dice: ci sono persone che sanno tutto, ma questo è tutto quello che sanno. E allora perché leggere? Ma magari nel mondo, come nelle fiabe, c´è ancora qualcuno che fa una cosa che ci hanno insegnato quando eravamo piccoli piccoli e che tutti ci siamo dimenticati. Che Dio ti benedica, caro lettore! Ma chi sei? Dove sei? Fatti vedere! Tu magari stai leggendo così, tranquillamente, senza renderti conto della tua unicità. Ormai gli scrittori sono molto più numerosi dei lettori e tra poco sarà lo scrittore a chiedere l´autografo al lettore, diceva Shane tanto tempo fa. Ma ora di lettori ne è rimasto solo uno: Tu. Che Dio ti conservi. Borges diceva: io non sono orgoglioso dei libri che ho scritto, sono orgoglioso dei libri che ho letto. Altri tempi. Nessuno legge più. Nemmeno i critici, i quali sostengono che se leggessero un libro per poi recensirlo ciò altererebbe il loro giudizio, sarebbero condizionati da ciò che leggono, insomma non potrebbero scrivere quello che vogliono perché anche loro giustamente vogliono soprattutto scrivere e non leggere.Forse perché siamo fatti a immagine e somiglianza del nostro Creatore. È pur vero, infatti, che anche il Padreterno non ha mai letto un libro ma ne ha scritto uno. Nel quale ci indica l´infallibile via per vivere in pace. E da come va il mondo si capisce, ancora una volta, che nessuno lo ha letto. Sì, nessuno legge più. Nemmeno i coretori di bozze (se troverai scritto correttori con una sola "R" e una sola "T", ciò ne sarà la riprova). Quindi, amato lettore, che Dio ti benedica ancora! Poiché tu stai leggendo. E una sceneggiatura, per giunta! E cos'è una sceneggiatura? Lo sceneggiatore è come lo Spirito Santo. Colui che ha soffiato nell'animo di Dio tutte le trame, gli intrecci, le battute e ha letto l'Eternità per poi scrivere quello che l'autore ha realizzato in sette giorni. E ora noi non facciamo che ripetere. Forse per questo nessuno legge più. Perché tutto è già stato detto. E anche che tutto è già stato detto è già stato detto. Non c'è nulla di nuovo sotto il sole, diceva Qohélet. E allora forse bisognerà andare a vedere cosa c'è sopra il sole per trovare una novità. Ma la novità, ha detto Prévert, è la cosa più vecchia che ci sia. E allora proviamo a rinnovarci con l'avanguardia. Ma Gore Vidal ha detto che al mondo tutto cambia tranne l'avanguardia. E allora? Che fare?, come diceva Lenin. Ah! Non se ne esce. Mi verrebbe da imprecare e urlare: "Merda!" se non dovessi pagare i diritti d'autore a Cambronne. Ma tu, lettore beato, che non hai nulla da fare, puoi ben credermi se ti dico che questa sceneggiatura, figlia com'è del mio pensiero, è la più bella, la più brillante, la più geniale che si possa immaginare. Però non ho potuto sfuggire alle leggi della natura, e in natura ogni cosa ne produce un'altra simile a sé. L'autore deve soltanto giovarsi dell'imitazione; e tanto più perfetta sarà l'imitazione, tanto migliore sarà quel che scriverà (Miguel de Cervantes, Don Chisciotte, I, Prologo). Addirittura Picasso ha detto: "Io non imito, copio". E allora, caro lettore, goditela questa meravigliosa sceneggiatura che, come ogni seria opera d'arte, narra la genesi della propria creazione, come dice Jakobson. Sì, perché anche noi abbiamo copiato tutto in questa sceneggiatura scritta, come direbbe Vincenzo Cerami, a quattro mani con Roberto Benigni. Ormai siamo diventati tutti come la dea Eco, quella che non sa parlare per prima, che non può tacere quando le si parla, che ripete solamente i suoni della voce che la colpisce, ha detto Ovidio. E quindi ha ragione Karl Kraus quando scrive: chi ha qualcosa da dire si faccia avanti e taccia! Ed è lo stesso Kraus a sostenere che la lingua è un sistema di citazioni. E io lo cito! Voglio fare come Henry James, che meravigliosamente ha detto: la mia mente è talmente pura che non è stata mai sporcata da un'idea. Anche Walter Benjamin sognava di pubblicare un libro interamente fatto di citazioni. "A me manca l'originalità necessaria", gli ha risposto George Steiner. Però sarebbe piaciuto perfino a lui. Infatti, subito dopo il creatore di una buona frase viene, in ordine di merito, il primo che lo cita. E anche se qualcuno può non essere d'accordo con questo pensiero di Ralph W. Emerson, come per esempio Roland Barthes che dice che non si può riprodurre ciò che è stato detto senza provare un certo senso di colpa, è pur vero che il semplice prelevamento di una citazione, la scelta nella quale la inserisco, il taglio che le dò, la trasforma e la fa diventare mia, come ha osservato Michel Butor. Altrimenti cosa farebbero autori come Paul Celan, che ha detto: "Non ho mai saputo inventare"? E tu, caro lettore, credo che sarai d'accordo con me. Anche perché le obiezioni spesso nascono dal fatto che chi le fa non è stato lui a trovare l'idea che attacca. E infatti io non ho nulla da obiettare a questa idea che ho appena esposto di Paul Valéry. Proprio per questo non mi sfiora neanche l'idea di avere delle idee, perché oltre a essere attaccati ci si mette anche nella condizione di essere citati, tanto per citare un pensiero di Jean Rostand. No, no, sono d'accordo con Morselli: voglio conoscere solo quello che so già. Soprattutto perché sono sicuro che se qualcuno oggi dice qualcosa di nuovo vuol dire che l'ha letto da qualche altra parte, ho letto in un libro di Kraus. Va bene, finisco qui perché ricordo che agli ambasciatori di Samo che avevano tenuto un lungo discorso, gli Spartani dissero: abbiamo dimenticato il principio e perciò non abbiamo capito la conclusione. Questo almeno racconta Plutarco. Il lettore mi perdonerà e sarà finalmente libero di leggere questa meravigliosa storia dove, come ha confessato il divo Eco a proposito di Il nome della rosa, non c'è una parola di mio. E con questo, caro lettore, concludo. Dio ti dia salute e non si scordi di me. Vale.P. S. L'ultima frase è ancora di Cervantes (Don Chisciotte, I, Prologo), citata da Stendhal in Il rosso e il nero.

Il viaggio di Ralph Waldo Emerson al termine della poesia

di Mario Andrea Rigoni, "Corriere della Sera", 14 gennaio 2008
I Saggi di Ralph Waldo Emerson (1803-1882) - insieme con Thoreau, Hawthorne, Melville e Whitman una delle grandi figure del cosiddetto «Rinascimento americano» - non sono certo ignoti in Italia, benché non siano neppure tanto conosciuti quanto meriterebbero. Un volume della casa editrice Moretti e Vitali, uscito nella collana diretta da Paolo Lagazzi e Giancarlo Pontiggia, offre adesso al lettore italiano l' occasione di ampliare un poco la conoscenza della teoria letteraria di Emerson riunendo, insieme al noto saggio Il Poeta, due altri, finora inediti da noi, dedicati rispettivamente al rapporto fra poesia e immaginazione e al concetto di «ispirazione». Geniale erede del romanticismo tedesco e inglese, non privo di alcune affinità di pensiero col nostro Leopardi, Emerson vede nella poesia l' essenza stessa della natura e la verità ultima dell' esperienza. Tutto il mondo, al quale il senso comune guarda come a una realtà finale, è invece una vasta rete di tropi che si colgono solo attraverso la «seconda vista» dell' immaginazione, poiché «ogni pensare è un fare analogie, e la vita si vive per imparare la metonimia». Emerson si spinge fino a un' affermazione che volentieri sottoscriviamo: logici, filosofi e critici non sono che poeti falliti. Tali e simili concetti sono illustrati nella prima parte di Rinascimento americano di F.O. Matthiessen: un classico e magnifico libro, la cui traduzione italiana, patrocinata da Cesare Pavese ed eseguita da Franco Lucentini, incomprensibilmente non si ristampa più da decenni. Mario Andrea Rigoni

R. W. EMERSON, Essere poeta, a cura di Beniamino Soressi MORETTI E VITALI PP. 104, 16 €

Ralph Waldo Emerson: società e solitudine

di Giovanni Borgognone, da “L’indice”

Romanticismo e americanismo convergono nella riflessione di Ralph Waldo Emerson, dando luogo a una sintesi per molti versi fondamentale nel plasmare il pensiero filosofico e politico statunitense del primo Novecento. È quanto emerge dalla presente raccolta di scritti. Nadia Urbinati, nell'introduzione, descrive opportunamente Emerson come modello di "intellettuale democratico" americano. In effetti, dalle pagine selezionate nel volume per il lettore italiano, affiorano quali tratti distintivi l'esaltazione dell'individuo in connessione organica con la società e la polemica nei confronti del modello europeo di intellettuale, la cui cultura viene disapprovata in quanto libresca e lontana dalla concreta vita sociale: un approccio critico non dissimile da quello sviluppato negli stessi anni dal pragmatismo statunitense. "Socialità e solitudine – dice Emerson – sono nomi ingannevoli"; l'unione delle anime è, sostanzialmente, di natura divina. Qui emerge l'ispirazione prettamente romantica della filosofia di Emerson, improntata alla ricerca dell'infinito nel finito: mentre Fichte la risolveva con l'attività del soggetto infinito, Schelling con l'assoluta indifferenza di soggettività e oggettività e Hegel con l'identità della razionalità e della realtà nella storia, il filosofo americano affronta la medesima questione rintracciando nell'individuo l'anima del tutto, l'eterno Uno, la Superanima. Non c'è barriera o confine, dunque, tra soggetto umano e Dio. Ma questa unione con Dio non nasce dagli artifizi intellettualistici, bensì dalla semplicità e dalla naturalità: in tal modo Emerson, pur riprendendo la filosofia romantica e idealistica europea, ribadisce l'anti-intellettualismo e l'antieuropeismo quali fattori fondamentali dell'americanismo.

"Condotta di vita": Ralph Waldo Emerson, Jorge Luis Borges e Nietzsche

di Gennaro Fucile, da "Quaderni d'altri tempi"

Nella prima delle cinque lezioni tenute all’Università di Belgrano (Buenos Aires), intitolata Il libro, Jorge Luis Borges affermò che: “Emerson concorda con Montaigne sul fatto che dobbiamo leggere ciò che ci piace, che un libro deve essere una specie di felicità”. La lettura dello stesso Emerson conferma la bontà di questa riflessione, essendo fonte di gioia autentica e non solo quando incontriamo il poeta. Immergersi nella sua prosa è concedersi l’autentico piacere della lettura. Non si tratta però di un puro intrattenimento formale. Questi saggi, raccolti in volume e pubblicati originariamente nel dicembre del 1860, e per la prima volta in Italia nel 1923, con il titolo La guida della vita, sono una vera miniera di intuizioni folgoranti. Lo furono anche per Friedrich Nietzsche, che lesse, studiò e metabolizzò non poco Emerson, avvicinandosi, appena diciassettenne, alla “filosofia nella vita”. Bastino, per chi ha familiarità con il filosofo della volontà di potenza, i versi che introducono al saggio intitolato Potenza: “La sua lingua aveva musicalità / e la mano aveva armata d’abilità / il suo viso era stampo della beltà / e il suo cuore trono della volontà”. Zarathustra è dietro l’angolo. Non a caso, sul legame tra i due calò, in pieno fascismo, un assordante silenzio: troppo intollerabile l’idea che proprio l’intellettuale simbolo della libertà, il filosofo della democrazia, solare, ebbro di vita, fosse il maestro occulto di quello che il Terzo Reich aveva eletto a proprio vate e filosofo di riferimento. Una singolarità di quelle che proprio Borges avrebbe amato annotare. Preziosa la ricostruzione accurata delle vicende critiche di questi saggi – nati da materiali utilizzati per una serie di conferenze tenute a Pittsburgh nel 1851 – che in postfazione compie Beniamino Soressi, cui si deve la traduzione di questi testi.




Su questi temi si vedano anche:

Singolare comune: due libri, di Friedrich Nietzsche e Ralph Waldo Emerson

APPUNTI DAL MARGINE TRA INDIVIDUI E SOCIETÀ

di Rino Genovese, "Il manifesto", 2 Luglio 2008

Il tramonto delle forme di vita comunitarie ha segnato la modernità e ha accompagnato come nodo irrisolto la democrazia. I saggi di Georg Simmel e Ralph Waldo Emerson riletti alla luce della globalizzazione I due volumi inaugurano una collana della casa editrice Diabasis dedicata a progetti di ricerca sul pensiero politico che privilegia la figura dell'essere sociale

Da dieci anni, ormai, «La società degli individui», il quadrimestrale diretto da Ferruccio Andolfi lavora - in una prospettiva filosofica, sociologica, storica - intorno alla questione forse più urgente e drammatica per qualsiasi politica che voglia dirsi di sinistra: come tenere insieme le ragioni del collettivo, della solidarietà e del legame sociale, con l'impulso alla libertà individuale, cifra caratteristica della tradizione moderna e della nostra contemporaneità. L'ultimo fascicolo della rivista (il numero 30 e di cui, per onestà recensoria, segnalo che il sottoscritto è uno dei redattori) è dedicato per esempio alla ripresa dell'idea di comunità. Non si creda, però, che il suo taglio sia di tipo «comunitarista» alla maniera americana odierna. Quella visione da liberalismo pentito di sé, alla ricerca di un radicamento territoriale - quasi un liberalismo «leghista» se mi si passa la battuta -, proprio di un certo pensiero statunitense, non fa parte del patrimonio genetico della rivista. La quale, nell'insieme, potrebbe essere piuttosto accusata dai suoi eventuali avversari di essere un periodico anarco-socialista con venature di dissenso cattolico sessantottesco.Adesso lo stesso Andolfi, con la collaborazione di Italo Testa, lancia la collana «La Ginestra. Biblioteca per un individualismo solidale» per le Edizioni Diabasis di Reggio Emilia. Si tratta di una collezione di testi agili, editorialmente ben curati, il cui scopo è rendere conto di una tradizione di pensiero sociale importante ma alquanto minoritaria nel corso degli ultimi due secoli. Un lavoro che fa tutt'uno con quello della rivista. I primi due titoli sono: Friedrich Nietzsche Nietzsche filosofo morale di Georg Simmel (pp. 128, euro 10) e Società e solitudine di Ralph Waldo Emerson (pp. 144, euro 10), il primo curato da Ferruccio Andolfi e il secondo da Nadia Urbinati.Mediocrità democraticaSimmel non è stato, come si sa, soltanto uno dei padri fondatori della sociologia, ma un filosofo a tutto tondo dal marcato accento metafisico. In questi scritti, alcuni dei quali tradotti per la prima volta in italiano, fa i suoi conti con Nietzsche, intervenendo in un dibattito che tra la fine dell'Ottocento e i primi anni del Novecento era molto acceso. Nietzsche non è per Simmel quel pensatore «immoralista» che lui stesso riteneva di essere, ma al contrario un filosofo dall'impostazione quasi kantiana, che rifiuta ogni forma di edonismo o «egoismo epicureo» per proporre una morale degli individui eccellenti, capaci di tenere sotto controllo gli impulsi e le passioni: una posizione, quella di Nietzsche, tesa ad affermare un nuovo tipo di umanità oltreumana, sottratta alla mediocrità «democratica» implicitamente connessa alla nascente società di massa ed esplicitamente annunciata dal darwinismo come trionfo del «tipo medio» a detrimento dell'individuo forte e nobile.C'è qualcosa di paradossale in questa lettura di Simmel, che pure intende sottrarre, riuscendoci, quel pensatore complesso e contraddittorio che fu Nietzsche alla vulgata che proprio in quegli anni si andava affermando. Il paradosso può essere messo in luce facendo riferimento a un kantiano molto particolare, Adolf Eichmann. Al processo di Gerusalemme (quello seguito da Hannah Arendt e di cui si possono vedere le immagini nel documentario di qualche anno fa Uno specialista), Eichmann, tra lo sconcerto generale, si dichiara discepolo di Kant e del suo «imperativo categorico». Ma come? Il criminale nazista, l'organizzatore del trasporto degli ebrei verso la «soluzione finale», seguace del più alto rappresentante dell'illuminismo tedesco? Catastrofe europeaBene, se coloro che assistevano al processo, e la stessa Arendt, avessero avuto sotto mano queste pagine di Simmel forse non si sarebbero stupiti più di tanto. L'imperativo categorico kantiano - con la rottura che propone nei confronti di qualsiasi inclinazione sensibile e di qualsiasi compassione rivolta al sofferente - ha già in sé il germe della crudeltà. Se infatti, per affermare la giustizia, il mondo può anche perire, non c'è spazio per la pietà; anzi, questa diventa un fardello da cui la morale, fondata sull'idea di giustizia, deve sbarazzarsi. E se lo slogan in cui si può riassumere l'imperativo categorico - «opera facendo in modo da trattare l'essere umano sempre come un fine, mai soltanto come un mezzo» - viene inserito nel disegno razzista di epurazione dell'umanità da quegli elementi della sua degenerazione che per i nazisti erano gli ebrei, si può allora arrivare a credere di compiere la suprema giustizia organizzando lo sterminio di massa. Il che, d'altronde, non vuol dire utilizzare l'essere umano come un mezzo, perché agli ebrei veniva negata proprio l'umanità, e anche perché distruggere gli individui in quanto appartenenti a un collettivo indistinto, a una razza, non è esattamente usarli come mezzi. È l'indurimento nello svolgimento del proprio compito l'elemento «kantiano» rivendicato da Eichmann. Ma al tempo stesso senza una morale degli individui eccellenti, che pone alcuni su un piano di superiorità rispetto ad altri, senza l'ossessione di sottrarsi al «gregge» in una società dentro cui irrompono le masse, senza l'aristocratismo disperato di chi sa che qualsiasi aristocrazia derivante dalla nascita è in via di liquidazione, non sarebbe pensabile questa paradossale forma di kantismo.L'illuminismo si rovescia nel suo contrario grazie a una mistura di Kant più Nietzsche. Il quale - sia chiaro - aveva sì mostrato la necessità per l'illuminismo di procedere a un'autocritica, ma non aveva in alcun modo predetto che si dovesse cancellare l'illuminismo stesso mediante il razzismo e l'antisemitismo, limitandosi a vagheggiare una morale dei forti.Ciò che insomma si può leggere in filigrana nelle pagine di Simmel dedicate a Nietzsche è né più né meno che l'annuncio della prossima catastrofe europea. Qualcosa che riguarda in modo precipuo il vecchio continente. Si pensi che qui la critica della cultura o della civiltà di marca conservatrice (per esempio, in uno come Ortega y Gasset) non fa distinzione tra democrazia e fascismo: entrambi sono regimi politici che conoscono al loro interno l'odiatissima massificazione, la perdita di sé dell'individuo. Questo aristocratismo di ritorno - in fondo connivente con la catastrofe - è al contrario sconosciuto negli Stati Uniti. In questo paese l'«essere di massa» è stato considerato fin da subito il banco di prova in un certo senso naturale dell'individualismo moderno: al punto che lo specifico individualismo collegato alla cosiddetta civiltà dei consumi, del cui avvento si potrà parlare in Europa solo a partire dal secondo dopoguerra fino ai giorni nostri, sarà vissuto per lo più come un'americanizzazione del vecchio continente.Un pastore della societàPer cogliere la differenza è sufficiente sfogliare le pagine di Emerson. Come nota Nadia Urbinati nel saggio introduttivo, Emerson può essere considerato l'antesignano di una linea di pensiero che, passando per il pragmatismo di William James e Dewey, arriva fino a John Rawls e alla sua teoria della giustizia distributiva. Il punto centrale consiste qui nell'idea che ciascuno ha da essere considerato niente di più che un individuo, senza tener conto di alcuna prerogativa di nascita o di status, mentre al tempo stesso soltanto nel riconoscimento delle sue capacità entro un contesto sociale è possibile la sua autentica affermazione. In altre parole, è l'idea del cittadino democratico come ci viene da quel paese, gli Stati Uniti, che per primo pose la questione dei diritti come aspetto cruciale della convivenza civile. In Emerson, che era stato all'inizio un pastore protestante e che scrive nel cuore dell'Ottocento, si può quindi trovare la potenza per così dire sorgiva dei «padri pellegrini» che hanno fatto l'America e il suo mito.Ma, appunto, la potenza sorgiva, i cui prolungati effetti hanno sì messo al riparo nel Novecento l'America (del nord) dalla catastrofe propria della storia europea, ma la cui spinta propulsiva appare ormai interrotta e come dissipata. Si pensi anche semplicemente a com'è andato mutando il ruolo delle sette religiose: da momenti di interazione comunitaria a strumenti di propaganda ideologica attraversata da forme di fondamentalismo uguale e contrario a quello che si riscontra in altre parti del globo. Leggere Emerson oggi, respirare l'atmosfera in cui è avvolto, insieme democratica e spirituale, ci riporta a un'America che non c'è più: un po' come guardare un vecchio dagherrotipo.



Su questi temi si vedano anche:

Paura e libertà (l'America, la paura e Ralph Waldo Emerson)

di Francesca Rigotti, rivista “Diogene”

Nel 1989 Judith Shklar, docente e studiosa di teoria politica dell’università Harvard, pubblicò un saggio dal titolo “Liberalismo della paura” (Liberalism of the fear), ispirato al pensiero di Montesquieu. Il titolo, non di immediata comprensione, sta a significare che il liberalismo è il principio politico che libera dalla paura.Per un liberalismo coraggiosoIl liberalismo della paura di Shklar contiene una teoria dei diritti in base alla quale il primo diritto consiste nell’essere protetti dal primo vizio, che a sua volta non è, per Shklar, la superbia bensì la crudeltà, com’ella ben spiega in Vizi comuni. Tutti i diritti, anzi, dovrebbero essere impegnati a proteggere l’uomo dalla crudeltà perché la crudeltà è il più crudele dei mali. Ispira paura e la paura distrugge la libertà.In particolare il sistema liberale deve prevenire dalla paura creata da atti di forza arbitrari, inaspettati e non necessari perpetrati dallo Stato, per esempio azioni di crudeltà, soprusi e torture eseguiti da corpi istituzionali come esercito, polizia e servizi segreti. In uno stato liberale non si dovrebbe aver paura della tortura perché la tortura non vi dovrebbe esistere, affermava Judith Shklar, mostrando, ahimé, non grande lungimiranza proprio rispetto al suo paese di adozione, gli Stati Uniti. Ma a parte il ritorno della tortura e continuando a sviluppare l’intuizione di Shklar, il liberalismo che previene dalla paura e che elimina la paura in che rapporto si pone con il coraggio?È questo il punto che vorrei affrontare, proprio a partire dalle tesi di Shklar. Esiste un liberalismo del coraggio, un liberalismo che incoraggia il coraggio oltre a prevenire dalla paura. Si può parlare, in termini di filosofia politica, di un “coraggio” del liberalismo?Per enucleare questo punto vorrei ricordare le posizioni di due autori “protoli-berali” che mi aiuteranno, per esclusione o per inclusione, a chiarire meglio la mia posizione.La donna: vile per natura?Il primo autore è Kant, nei confronti del quale si procederà per esclusione, dal momento che le sue osservazioni sul coraggio escludono tutte le donne, me compresa, dalla possibilità di esercitare e persino di conoscere la virtù del coraggio. In vari punti delle sue Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime (1764), come pure dell’Antropologia da un punto di vista pragmatico (1798), il filosofo di Koenigsberg esprime chiaramente le proprie considerazioni, pur non dedicando in alcuna delle due opere una trattazione particolare al coraggio. Kant non soltanto attribuisce le passioni, bassamente valutate, al sesso femminile, e il ben più elevato intelletto (Verstand) al sesso maschile; Kant in più assegna in toto i sentimenti connotati negativamente e passivamente alle donne, le emozioni attive e positive agli uomini. Se le donne hanno sentimenti (Gefühle), gli uomini abbiano intelletto (Verstand). Anzi, un intelletto profondo e accurato per le cose gravi, importanti e sublimi; alle donne si addice il leggero e superficiale sentimento del bello, del grazioso, del morbido e piccolo. Nell’ambito della distribuzione secondo il sesso, i due membri della coppia paura/coraggio spetteranno, ça va sans dire, alle donne la prima, agli uomini il secondo, anche perché il coraggio sarebbe per Kant una virtù razionale, che si avvicina dunque all’intelletto; la paura, un sentimento passionale.Se proprio vogliamo trovare qualche traccia di coraggio nella donna la individueremo, spiega Kant nelle Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime, nel coraggio di seguire il proprio uomo nella miseria o di sopportare con lui disgrazie e fallimenti. Con pazienza, già che la pazienza sì, è femminile, insiste Kant; il coraggio, è maschile.E tutto ciò senza che da parte di Kant vengano spese molte parole per motivare la naturale disposizione della femmina alla paura (Ängstlichkeit), anche se una breve spiegazione di ordine antropologico viene concessa: la paura della donna garantisce la riproduzione della specie in quanto l’espressione di tale “naturale debolezza che pertiene al suo sesso” risveglia nel maschio i suoi altrettanto naturali caratteri di forza e di protezione. Anzi, in un crescendo di argomenti denigratori, si sostiene da parte di Kant che se la donna avesse la forza e il coraggio di difendersi da sola non avrebbe bisogno dell’uomo, che ama nella donna proprio queste debolezze e carenze. Il coraggio è contagiosoSappiamo che Kant non era ancora completamente liberale, benché molte delle sue intuizioni e teorizzazioni in campo etico siano state accolte nella teoria liberale moderna, in particolare nella versione egualitaria elaborata da John Rawls e basata precisamente sui principi della morale kantiana. Rivolgiamoci quindi a un filosofo successivo, nato e cresciuto negli USA, culla della democrazia moderna, Ralph Waldo Emerson, le cui osservazioni sul coraggio includeremo invece nella nostra storia. Definire Emerson liberal-democratico è senza dubbio eccessivo, oltre che antistorico. Eppure anch’egli costituì un importante ambito di riferimento per molti filosofi liberali successivi.In una conferenza tenuta nel 1859 davanti alla società dell’attivista antischiavista Theodore Parker, Emerson si soffermò a parlare del coraggio presentandolo come una delle qualità che in maggior misura suscitano la meraviglia e la reverenza dell’umanità, insieme al disinteresse e alla potenza pratica.La definizione di Emerson dice che il coraggio “è lo stato sano e giusto di ogni uomo, quando è libero di fare ciò che per lui è costituzionale fare”. Quello “stato di ogni uomo” potrebbe far nuovamente pensare al coraggio come virtù esclusivamente virile, e in effetti tutti gli esempi di coraggio come “volontà perfetta che nessun terrore può scuotere” sono maschili, da Leonida a Cesare, a Nelson, Napoleone etc. Eppure, anche la “timida donna”, di fronte a situazioni estreme, non teme il dolore, sostiene Emerson, e mostra il proprio coraggio quando ama un’idea più di ogni altra cosa al mondo, provando letizia “nella solitaria adesione al giusto”. Persino la donna “non teme le fascine che la bruceranno; la ruota torturatrice non le fa spavento”.La paura infatti, prosegue Emerson argomentando in maniera davvero originale e insolita, è superficiale e illusoria quanto lo è il dolore fisico che alla fine, dopo il primo tormento, diventa quasi impercettibile. La paura è superabile quando si è all’altezza del problema che ci sta dinnanzi. È tanto più sormontabile quanto più si comprende precisamente il pericolo. L’antidoto alla paura è la conoscenza; la conoscenza toglie la paura dal cuore, dà coraggio e il coraggio è contagioso. Possono aiutarci dunque queste considerazioni filosofico-letterarie a individuare, se esiste, e se esiste in che cosa consiste, il “coraggio del liberalismo”? Paura e liberalismoBenché l’amore per la democrazia sia considerato una passione grigia, fredda e pacata e il liberalismo sia ritenuto una teoria politica ragionevole e tranquilla, ben lontana dall’infiammare gli animi e spingere la gente sulle barricate, il liberalismo sarebbe impensabile senza il coraggio: tant’è che alcune posizioni contemporanee che propongono di sacrificare la libertà alla sicurezza per preservare dalla paura, non dei soprusi istituzionali come pensava Shklar, bensì degli attacchi terroristici e criminali, finiscono per snaturare i caratteri fondamentali del liberalismo, soprattutto nella versione, cui mi rifaccio, del liberalismo egualitario.Gli ideali di libertà del filosofo Isaiah Berlin sono radicati nel senso di autonomia, del darsi da sé le proprie leggi senza aspettare sostegni e suggerimenti dall’esterno, nemmeno da precetti religiosi. Non voglio dire con ciò che un autore liberale rifiuta l’idea di un Dio legislatore in campo morale: la sua presenza o assenza è però indifferente rispetto all’autonomia e alla libertà degli uomini. Certo che esistono società politiche dove la separazione tra Stato e Chiesa è netta eppure la fede religiosa è molto diffusa, come gli Stati Uniti. Ma la presenza della fede religiosa in ambito politico, economico o scientifico non è certo palpabile o determinante, ed è proprio questo che definisce “secolari” tali società. Il liberalismo non ha bisogno di fondamenti divini né di richiami alla trascendenza, benché possa convivere in spirito di tolleranza con persone che a essi si richiamano purché queste non interferiscano con le sue iniziative; il liberalismo dovrebbe mantenere un atteggiamento di perfetta neutralità rispetto alle credenze, fedi e opinioni religiose e areligiose. E di fatto il liberalismo ha svolto un’utile opera di smussamento di alcune punte delle chiese, che hanno dovuto mutare in parte le loro idee, per esempio nei confronti della sottomissione sessuale, per sostenere il consenso politico alla riforma liberale.Ma il seguire il proprio cammino in autonomia da norme divine richiede coraggio. Che tipo di coraggio? C’è un ideale di coraggio simile a quello dello stoicismo che ispira l’idea del bene senza garanzie di successo, anzi, con la certezza del fallimento totale; non soltanto nel senso che un universo indifferente spazzerà via alla fine l’intero operato dell’umanità, ma anche nel senso che non si riconosce una speranza trascendente al di là della storia. Tocchiamo qui l’altezza pura della moralità umana, autonoma e autofondata, completamente devota al bene e al giusto. Non è l’autogiustificazione di Nietzsche che deliberatamente respinge l’egualitarismo, la democrazia, la filantropia e il bene di tutti. L’umanesimo liberale che ha il coraggio di definirsi tale valorizza la capacità di autonomia che pensa l’uomo come la fonte delle sue rappresentazioni e dei suoi atti. Paura e libertàUno degli eroi precursori di questa storia è sicuramente Ugo Grozio, rappresentante della tradizione giusnaturalista che vede le relazioni umane come regolate dalla “legge naturale”, cioè da leggi morali vincolanti che pongono condizioni normative etsi Deus non daretur, anche se Dio non esistesse. Altri eroi ne sono lo scrittore Camus, con la sua posizione “ellenistica” che esalta la sapienza di vita nell’immediato e non nel lontano; Isaiah Berlin e poi Judith Shklar, teorici e seguaci di un liberalismo negativo che pratica la filantropia, evita la sofferenza, lotta contro l’oppressione e considera il valore più alto il liberalismo che preserva dalla paura e invita al coraggio.Il coraggio mostrato dai re indiani conquistati dai predoni spagnoli, quel loro invincibile coraggio che consisteva nel dignitoso rifiuto di compiacere i loro conquistatori; come pure il coraggio dei poveri, dei contadini francesi dell’epoca di Montaigne che mostravano questa loro virtù vivendo rassegnati e morendo senza scalpore, anche queste per Montaigne-Shklar sono forme di coraggio.Il coraggio di darsi autonomamente norme e regole, per contratto, per consenso, dopo dialogo e deliberazione, è diventato una delle cifre della modernità e della secolarizzazione. È il coraggio di stabilire standard per una vita buona che ha senso soltanto finché ci saranno umani, ma che non vale soltanto per gli umani bensì anche, per esempio, nelle nuove frontiere della giustizia di Martha C. Nussbaum, per gli umani disabili e per gli animali non umani, troppo spesso presi in considerazione per carità e compassione e non per giustizia. Mentre i doveri verso prossimi e lontani, umani e non umani, abili e disabili sono, per il coraggio del liberalismo, doveri di giustizia e non di carità, di rispetto e riconoscimento di dignità, non di amore né ammirazione.

Una versione più estesa di questo saggio è comparsa sulla rivista ParadoXa, n.1, 2008.

Ralph Waldo Emerson, il padre degli USA

Storia di un “filosofo con il megafono” dalla scrittura schietta e clamorosa. Che divenne il vero Cicerone americano

Tutti, volenti o nolenti, passarono da lui, perché lui poteva fare di un comune mortale un Cesare. Riflessioni

di Davide Brullo, da "Il domenicale", anno 2005.

Per fortuna che ogni tanto nasce un Cicerone. Lingua asciutta e schietta, filosofia spiccia. C’interessa ciò che siamo e come andiamo. Il “dove” lo si lasci ai teologi di quart’ordine. E i pensieri iperuranici tutti a Platone, e le sottigliezze minute minute tutte ad Aristotele. A noi garba la filosofica semplicità. Secolo passa secolo, in un passaggio di testimone che più in là di così non può andare, Roma si trasfigura negli States, lungo un impero diversificato ma dalle fondamenta solide che collega New York a Los Angeles e tanta prateria in mezzo. Che assorbe e rifà quanto ha messo a dottrina la Grecia-Europa. A loro, gli europeini verso cui soffriamo ancora di qualche complesso d’inferiorità (i romani buoni prendevano lezione dai greci dopo averli schiacciati), il pensiero pensante, a noi il pensiero che agisce. E gli Usa il loro Cicerone ce l’hanno avuto, e di che schiatta. Ralph Waldo Emerson (1803- 1882), ovvero, il filosofo con il megafono. Che scrive che a leggerlo è come bere ampie sorsate di aureo succo, che parla dai pulpiti di mezza America, che getta pistolettate di pensieri buoni all’uso alla pari di un rappresentante di miracolosi farmaci. Se vuoi capire il genio americano rivolgiti a lui. E comincia a leggere i suoi celebri saggetti radunati ora sotto il titolo Diventa chi sei (sprigionante azione e pionierismo da tutti i pori rispetto al contemplativo e grecissimo “conosci te stesso”) da Stefano Paolucci, che ne fa una curatela ottima e calorosa (Donzelli, Roma 2005, pp.148, e12,50). Amo tutti i tuffatori... Tutti son passati da lui, o quantomeno gli hanno sfiorato la mano. Hawthorne lo stimò assai, la Dickinson, pur sempre distante dai vaniloqui del mondo, probabilmente ci pranzò assieme e assistette a una sua conferenza, nel 1857, l’anno in cui di lei sappiamo pochissimo, se è vera quella frase tramandata dai familiari per cui avrebbe detto che egli, il grande savio degli States, era «come se fosse uscito da dove i sogni sono nati». Inutile dire di Henry D. Thoreau che mette in pratica e per scritto i consigli del maestro, a casa del quale campeggiò più di un giorno. Inutile dire del grandioso Walt Whitman, che fu il Lucrezio di Emerson, nel senso che di questo si direbbe molto meno, come per Epicuro, se non avesse avuto il suo obliquo cantore. Di cui riconobbe immediatamente il talento: fu l’unico, il 21 luglio 1855, a scrivere una lettera di felicitazioni dopo la lettura del “perverso” Foglie d’erba. Pare che però se la ebbe a male quando Walt decise di apporre la lettera a mo’ di preludio alla seconda edizione del libro. Microscopie. Fatto è che dallo stesso arbusto cresce fogliame d’ogni genere. E Melville? Lo gnostico geniale e distrutto dal proprio genio non spartisce niente con nessuno, tranne con Shakespeare e il Testo Sacro (e certe smancerie ad Hawthorne). Una concessione gliela facciamo, però. All’epoca di Mardi, che non fosse per l’impegno critico di Ruggero Bianchi nessuno conoscerebbe in Italia (la sua curatela al libro, esempio raro di precisione analitica e affettiva, fu edita da Mursia, Milano 1987), uno dei libri melvilliani assieme a Pierre che i critigonzi fanno fatica a capire anche oggi che son passati centocinquant’anni, cioè attorno al 1849, Melville scrive a Evert A. Duyckinck, uno dei suoi radissimi amici, che il pensatore «è un grand’uomo », e poi, in altra lettera e più lungamente, fiorisce il discorso così: «Diciamo pure, per amor di discussione, che Emerson sia uno sciocco: in questo caso preferisco essere uno sciocco anziché un saggio. Io amo tutti gli uomini che sanno tuffarsi. Qualsiasi pesce è capace di nuotare in prossimità della superficie; ma ci vuole una grande balena per scendere a cinque miglia e più di profondità». Poi, però, chiude la pratica scrivendo di «non vibrare nell’arcobaleno di Emerson», e abbozzando una spigolosa caricatura del filosofo, definendolo un «Platone che parla nel naso». Sbruffonerie da chi si allena a divenire un santo. Il famosissimo emersoniano Fiducia in se stessi è una specie di manuale per il perfetto yankee. E che i pionieri avrebbero fatto bene a tenersi in saccoccia. Che respiro ampio, che bontà vera. E che sculacciate a quanto non è originariamente umano, e perciò originariamente “americano”. Alle spine i malcelati complessi d’essere poco più che figli bastardi della ricca Europa, «Noi dobbiamo procedere da soli»; «la storia è danno e impudenza se vuol essere qualcosa di più di un ridente apologo o di una parabola del mio essere e del mio divenire». Che preziosi quei diamanti del tipo «insisti su te stesso; non imitare mai», come ci si amplia il petto, e ci s’impilano i muscoli al sentire tali assiomi: «è solo quando un uomo si sbarazza di ogni sostegno a lui estraneo e sta in piedi da solo, che io posso vederlo forte e vincente». Io sono Michael Jordan Curiosità bibliografica svelataci da Paolucci: in epoca fascista, in cui imperava il training autogeno, Emerson era dato in pappa agli scolaretti. E chi non vorrebbe come maestro uno che, siamo alle Leggi spirituali, ti tirava su il morale dicendoti che «questa sopravvalutazione delle possibilità di Paolo e di Pericle, questa sottovalutazione delle nostre personali possibilità deriva dal trascurare il fatto che esiste una natura identica». Il sangue che scorre in questa vena è lo stesso che scorreva in Eschilo e Cesare, in Napoleone e in Michael Jordan. Emerson sembra uno di quegli allenatori stravincenti, un Pat Riley, un Fabio Capello, che sanno come galvanizzare i propri (chi non lo sa che il distacco tra il primo e il secondo non è nelle gambe ma nella testa?). Del tipo, ragazzi, qui, ora, adesso, come mai prima, lottiamo per l’eternità. Che bello un tempo in cui matematicamente funzionava la regoletta per cui «se un uomo sa di saper fare qualcosa, e sa di poterla fare meglio di chiunque altro, egli ha la garanzia che tutti quanti riconosceranno questo fatto». Mentre oggi tutto dipende da “cosa” sai fare, e c’è un tale pasticcio d’idee per cui a mala pena si riesce a riconoscerla un’opera di genio. Ma lì, nel tempo emersoniano, nel tempo del sogno americano e di una frontiera ricca di scoperte «un uomo è considerato per quel che vale. Ciò che egli è sta inciso a lettere di fuoco sul suo volto, sulla sua forma, sulle sue esperienze. Né il celarsi né il vantarsi gli servono a nulla». E così il lavoro maieutico del sapiente Ralph resta inciso nelle pagine del suo diario, in una riga del 1839: «Inviterò gli uomini immersi nel tempo a ritrovare se stessi e ad uscire dal tempo per gustare la loro nativa aria immortale». Che bello, pare di ringiovanire, iscriviamoci alla Setta dei Poeti Estinti, rivediamoci L’attimo fuggente di Peter Weir, con i marmocchi che vogliono una vita silvestre come Thoreau, e berciano mimando Emerson, e canticchiano come il barbuto Walt «O Capitano! mio Capitano! il nostro viaggio tremendo è finito,/ La nave ha superato ogni tempesta, l’ambito premio è vinto ». I tempi del sogno americano. Presto abortiti. Già l’energia galvanizzante ed emersoniana di Melville è votata a scrutare il maligno. Con gli altri è rovina. Faulkner, Caldwell e i “perduti” intaccano all’osso l’allegria dei pionieri. Il sogno s’è fatto incubo. L’unico emersoniano fino al caramello, prosa larga, pelagica, divorante anche l’oscurità è Thomas Wolfe. Semplicemente, il demonio Per Robert Penn Warren, appuntito critico d’America, ma soprattutto poeta non da poco e perciò introvabile nei banconi di casa nostra, Emerson, glielo aveva suggerito Allen Tate, era semplicemente il demonio. E ci credo, con quell’idea che anticipa la New Age per cui ogni testo sacro è sacro, che il dio è il dio di tutti e che Ralph chiama con il nomignolo di “Over- Soul”, cioè superanima, che leggi la Bibbia o il Corano o i Veda e in entrambi vedrai la verità, e che il dio semmai lo trovi da te senza nessun parroco che t’imbocchi a proposito... ce n’è da far saltar per aria non solo i bacchettoni. Quella fiducia, poi, che spazzava la tradizione tutta, faceva tremare le ginocchia (e se ne abusò, a destra come a sinistra). E quella balorda idea della Compensazione, invero lo sforzo filosofico più acuto di Emerson e di più larga gestazione, per cui «ogni atto reca in sé la propria ricompensa, o, in altre parole, integra se stesso», cioè: «colui che compie una buona azione ne è immediatamente nobilitato. Colui che compie un’azione meschina è limitato dall’azione stessa. Colui che si spogli dell’impurità si veste conseguentemente di purità. Se un uomo è giusto nel profondo dell’animo, nella misura in cui lo è, egli sarà allora Dio: la salvezza di Dio, l’immortalità di Dio, la maestà di Dio entrano in quell’uomo con la giustizia»? Le cose partono da lontano, dall’8 febbraio 1831. A diciannove anni Ellen Louisa Tucker, con cui un Emerson in attesa di diventare Emerson si era sposato un anno e mezzo prima, muore. È la batosta che inaugura una nuova vita. Alla base del retto conoscere c’è un grave dolore direbbe Eschilo. In questo caso il dolore viene assorbito velocissimamente, almeno all’apparenza. Due ore dopo la morte di Ellen, Ralph scrive alla zia paterna Mary Moody Emerson una lettera di questo tipo: «Il mio angelo è andato in cielo questa mattina & io sono solo al mondo & stranamente felice». Pensare è agire avrebbe detto di lì a poco il famosissimo conferenziere. Dalle parole ai fatti. Liberatosi (si fa per dire) della moglie, Emerson salpa per l’Europa, ci fa i conti, e torna vincitore e pieno di grandi idee negli States. In Compensazione scrive: «La morte di un caro amico, di una moglie, di un fratello, di una persona che amiamo, che all’inizio non sembrava altro che privazione, più tardi assume l’aspetto di una guida o buon genio; poiché tali eventi operano solitamente delle rivoluzioni nel nostro modo di vivere, terminano un’epoca di infanzia o di giovinezza che aspettava solo di essere chiusa, mandano all’aria un’occupazione abituale, o l’unità della famiglia, o uno stile di vita, e ne permettono la formazione di nuovi, più adatti alla crescita del carattere ». Già, magari per spiriti dotti e ampi come quelli di Emerson. Ma a noi eterodossi la cosa fila poco, siam più desti a vedere come degli idioti quelli che in vita sperano che il maltolto gli verrà restituito. E poi, caro Ralph Waldo, creatore di una beata scappatoia, non è che così si risolvono gli interrogativi di Giobbe o di Davide. A lezione da Shakespeare L’uomo che vedeva nel genio di Shakespeare il precursore del genio americano, sublime condottiero dell’europeità ma pure alfiere di ciò che sarebbe sorto, per cui «Shakespeare è escluso dalla categoria degli autori eminenti quanto lo è dalla folla. È inconcepibilmente saggio, gli altri lo sono concepibilmente. Un buon lettore può, fino a un certo punto, rannicchiarsi nel cervello di Platone e pensare da lì, ma non in quello di Shakespeare. Siamo ancora fuori. In termini di facoltà esecutiva, di creazione, Shakespeare è unico», quest’uomo così accorto non seppe vedere il genio che scandaglia il male (un male inestirpabile, incoerente, necessario) del sommo inglese. O non lo volle vedere. Ergo: non è che Riccardo III sia una scolaretta che va per margherite. Pietà per Emerson, non è degli uomini sapere e vedere ogni cosa. Un uomo come Ralph, un uomo che ci riconcilia con il mondo, facendo slalom tra pensierini foderati d’oro che fanno il verso alla sapienza orientale (parafrasi dalla Bhagavad-gita: «Azione e inazione sono uguali al cospetto del vero») è foriero d’indicazioni letterarie che spesso non mancano il bersaglio. Questa, ad esempio, adatta a rimettere in riga i critigonzi e gli aspiranti scrittorelli: «Non esiste fortuna nella reputazione letteraria. Chi emette il verdetto finale nei confronti di ogni libro non sono i parziali e rumorosi lettori del momento in cui esso viene pubblicato, ma una corte di angeli, un pubblico che non può essere né corrotto, né supplicato e né intimidito decide sul titolo alla fama di ogni uomo. Quaggiù arrivano solo quei libri che meritano di durare». In faccia a chi pensa che un libro è di peso perché ha sbancato il banco delle vendite. Poi, sia chiaro, anche il padre della patria Ralph pecca di troppa fiducia nei propri mezzi. Ad esempio quando dice che valoroso scrittore è colui che scrive direttamente dal “cuore”, in verità e adesione a se stesso. Così, al limite, si potrà scrivere un buon diario di bordo. Il cuore andrà limato almeno con la mente. Che Emerson ripassi il suo eroico Shakespeare.

Nell’anima del mondo: Ralph Waldo Emerson

Di Stefano Lecchini, “La Gazzetta di Parma”, 25 gennaio 2008

Emerson, il pensatore americano che esaltò la poesia come forza della natura. “Essere poeta” compendia suggestivamente le sue vitalistiche concezioni. Due dei tre saggi contenuti nel volume non erano mai stati tradotti in italiano

Ralph Waldo Emerson non ebbe in sorte di lasciarci versi memorabili – malgrado ciò, lo Spirito della poesia si espresse attraverso di lui per altre strade. Bostonia­no, filosofo, grande conferenziere, oratore e saggista, ex pastore della
Chiesa Unitariana, da cui si staccò per dedicarsi alla predicazione solitaria e itinerante, Emerson è considerato an­cor oggi una delle figure centrali del cosiddetto «Rinascimento america­no» - gli anni e la temperie sono i medesimi di Melville, di Hawthorne, di Thoreau, di Whitman. Moretti&Vitali, nella collana «I volti di Hermes», diretta dal parmigiano Paolo Lagazzi e da Giancarlo Pontiggia, ha appena pubblicato, per la cura di Beniamino Soressi, «Essere poeta», tre saggi, due dei quali finora inediti in italiano (si tratta dei bellissimi e suggestivi «Poe­sia e immaginazione» e «Ispirazio­ne»), in cui il lettore troverà precipi­tato il nucleo di immagini che ha ali­mentato, nei quasi ottant’anni della sua esistenza (1803-1882), la mente di Emerson. Folte di sterminate letture ­da Omero e Platone ai lirici e tragici greci ai latini a Dante, Milton, Sha­kespeare, Cervantes, Montaigne, Rabelais, fino agli amatissimi romantici ­inglesi e ai testi sacri dell’India e della Persia, Emerson crede, con l’amatissimo Swedenborg, che il mondo non sia altro che una costruzione dell’Anima. Tutto è Bellezza, perché l’Anima del Mondo è Bellezza; e tutte le cose, anche le più lontane e divergenti fra loro, partecipano – giacché ne sono incarnazione – di questa Bellezza. Così, non si dà alcuna differenza fra le cose, e fra le parole e le cose. Se tale è lo sfondo, il poeta apparirà dunque come colui che coglie e tra­duce in versi queste infinite relazioni,
ritrovando nel Tutto una fittissima re­te di simboli o analogie o metonimie. La Natura è essa stessa, in primo luo­go, simbolo dell'Anima: ogni cosa sa­rà pertanto collegata per infinite vie alle infinite altre. Ma appunto: solo il Poeta riesce a vedere e a esprimere (“metricamente”, e nel gioco nobilmente infantile delle rime) queste relazioni. Ove l’uomo comune si ferma al dato sensibile, l’immaginazione del Poeta si eleva sopra la bruta e insignificante nudità del fatto (“i fatti”, sentenzierà poi un emersoniana sui generis come Nietzsche, “sono sempre stupidi”): si fa puro sguardo che penetra nello sterminato reticolo delle relazioni, e volge ogni impressione in espressione. Solo in tal modo potremo renderci conto e divenire profondamente parte della stessa Sostanza divina del Mondo: solo in tal modo, come avrebbe intuito, dall’altra parte del mondo, il reverendo Gerald Manley Hopkins, potremo bruciare fino in fondo – ossia fino al rovesciamento supremo dell'estasi – del suo stesso, indimenticabile e incancellabile, Fuoco. E non vi è alcuna libertà in questo: solo la felice obbedienza alle figure ai ritmi che la Natura ci detta. Così è qui, in questi saggi che raccontano l'essenza della poesia, che Emerson trova la sua autentica voce di poeta: ogni riga e bagnata dalla luce, morbida e necessaria, della Bellezza: ogni immagine risponde a un'altra immagine o a infinite altre immagini: ogni ritmo si adegua all'ebbro, incessabile ritmo della Bellezza e dell'Anima.
Anche laddove qualcuno veda soltanto abbrutimento, distacco delle cose dall'armonia divina che le ha generate (erano gli anni in cui le stimmate della rivoluzione industriale cominciavano a sfregiare il «paesaggio» ), il Poeta rinsalda le cose alla natura e al Tutto, «rinsaldando persino le cose artificiali, e le violazioni della natura, alla natura stessa, tramite un’intuizione più profonda». Oggi, 150 anni dopo Emerson, questa fiducia meravigliosamente ingenua nella necessaria relazione di tutte le cose sembra essere andata irrimediabilmente in frantumi. Abitiamo un mondo in cui il simbolico ci si mostra umiliato, degradato, cancellato, letteralmente sfigurato. I miti, oggi, sono perlopiù fenomeni da baraccone. Tutto ci appare irrelato Ma basta che qualcuno cominci a modulare, nella sua voce, nei suoi versi, anche soltanto questa stessa lacerazione, che il vecchio fuoco riprende a bruciare. Questo fuoco ci indica chi simboli sono ancora lì, pronti a essere colti e cantati sotto la cenere che li ha ricoperti: che la nostra anima forse non è ancora diventata cieca e non si è spenta: che fare poesia può essere ancora, malgrado tutto, fare anima.

Diventa chi sei di Emerson

A cura di Stefano Paolucci, pp. X-147, 2005
L. 24.203 € 12,50
ISBN 88-7989-862-0

Ralph Waldo Emerson è stato assai più che un importante pensatore: è stato tra i fondatori dell’identità della nuova America. Padre del trascendentalismo americano, ha influenzato con la sua filosofia «ottimistica» scrittori come Henry D. Thoreau, autore del celebre Walden. Pochi come lui hanno avuto un influsso così vasto sul modo d’essere, sui valori e sullo stile di vita di un intero popolo.«Diventa chi sei» è il messaggio grandiosamente semplice che Ralph Waldo Emerson non si stancò mai di annunciare, e che rappresenta il filo conduttore di questi tre brevi saggi, sintesi efficacissima del suo pensiero, finalmente riproposti ora in traduzione italiana. Se con Fiducia in se stessi, autentica pietra angolare trascendentalista, Emerson ci esorta innanzitutto a riscoprire le risorse incommensurabili dell’individuo, con Compensazione mette nero su bianco la «bella eppur severa» realtà divina della Legge degli opposti-e-complementari che governa ogni cosa, senza il cui riconoscimento qualsiasi tentativo di evoluzione spirituale sarebbe vano. Completa il triangolo Leggi spirituali, naturale «espansione» dei concetti espressi in Fiducia in se stessi.La nuova traduzione dei saggi è arricchita da una bio-bibliografia sull’autore e da un saggio critico di Stefano Paolucci, membro della Ralph Waldo Emerson Society e della Thoreau Society.

Ralph Waldo Emerson, il poeta della conoscenza

Gli editori italiani riscoprono il padre del “Rinascimento americano”
Di Renato Cristin, da "Liberal", estate 2008.

Ralph Waldo Emerson (1803-1882), che Nietzsche definì “il pensatore più ricco di idee del secolo”, è uno dei pilastri della filosofia americana e rappresenta una versione che potremmo definire non-analitica di quel pragmatismo che l’ha in gran parte determinata. La nuova traduzione di una delle sue opere fondamentali (Condotta di vita, introduzione di Giorgio Mariani, traduzione e cura di Beniamino Soressi, Rubbettino Editore, 309 pagg., 24 euro) ha il merito di riproporre al lettore italiano l’importanza di un pensatore che appartiene al ristretto novero di quegli scrittori (tra cui Hawthorne, Melville, Thoreau, Whitman, che nei primi anni Cinquanta del Diciannovesimo secolo rappresentarono ciò che è stato chiamato il “Rinascimento Americano”.

Insieme ad altre due recenti e meritorie pubblicazioni (Essere poeta, a cura di B. Soressi, Moretti & Vitali Editori, 103 pagg., 16 euro, Società e solitudine, a cura di Nadia Urbinati, Edizioni Diabasis, 137 pagg., 10 euro), quest’opera può rimediare a una lacuna di ricezione. Infatti, la figura di Emerson è stata poco valorizzata in Italia, sia perché del pensiero americano si è privilegiato il filone in cui si è mosso il pragmatismo, sia perché si è riduttivamente inteso il pensiero di Emerson come una forma di trascendentalismo derivato da quello tedesco e quindi di spessore inferiore all’originale. Tutt’altra è invece la verità su questo pensatore dall’energica visione metafisica e dal dirompente vigore letterario, che amava definirsi in primo luogo come “poeta”.

Egli tentata una mediazione, di fatto ben riuscita, fra un pragmatismo che vuole risolvere i problemi dell’esistenza concreta senza farsi troppo imbrigliare dalle prescrizioni morali e un eticismo che prospetta soluzioni pratiche avendo come riferimento costante i principi morali. La via mediana di Emerson è una filosofia pratica che trae insegnamento sia dalle situazioni della vita sociale sia dalle riflessioni della metafisica, che cerca di conservare un difficile equilibrio fra l’accettazione della potenza naturale e l’esigenza di miglioramento dell’essere umano, come pure fra onnipotenza divina e scelte umane. Il suo è un universo dinamico, il cui movimento è dato dalla tensione fra forze contrapposte (fato e volontà, natura e cultura, pietas e violenza, ecc.), un universo in cui si fondono l’elemento tragico e quello armonico. Sul piano gnoseologico, egli medita nel solco del binomio tracciato da Goethe: “poesia e conoscenza”, poesia come conoscenza, come metafisica: “la poesia è il perpetuo sforzo di esprimere lo spirito della cosa e cercare la ragione che ne causa l’esistenza”. E, come Hölderlin, ritiene che la poesia sia il fondamento del mondo: “ciò che resta, lo fondano i poeti”, recita infatti il verso hölderliniano. Un tributo al di sopra di ogni sospetto alla grandezza del pensatore americano venne da Nietzsche. Nonostante nel 1876 consideri le ultime opere di Emerson come frutto di un pensatore “alquanto invecchiato e troppo innamorato della vita”.

Nietzsche gli ha sempre riconosciuto un forte influsso genealogico sul proprio pensiero, in particolare per quanto riguarda la nozione di volontà di potenza, ritrovando nel filosofo americano quella visione eroica dell’esistenza (“tutte le gesta che han fatto la nostra civiltà erano i pensieri di poche buone menti”, scrive Emerson) che dovrebbe portato alla delineazione nietzschiana dell’übermensch, dell’uomo che trascende i propri limiti per affermarsi nella sua superiorità rispetto sia alla natura sia alla cultura (il caso ha voluto che Emerson morisse nell’anno in cui Nietzsche pubblicata la Gaia scienza). Ma pur essendo un sostenitore dell’aristocrazia spirituale (le masse sono una “calamità” e non devono “essere lusingate ma ammaestrate”), Emerson fu nel contempo un paladino della democrazia sociale. Egli ha teorizzato senza reticenze la tensione dell’uomo verso la potenza individuale e generale, ma fu anche colui che Dewey chiamò “il filosofo della democrazia”.

Recupera la concezione elitaria di Carlyle, secondo cui la storia viene costruita dalle personalità eccezionali, ma la disloca entro una dinamica in cui gli eroi diventano “uomini rappresentativi”, in cui la pura autorità diventa autentica autorevolezza e in cui non ci sono distinzioni né di censo né di razza (celebre fu la sua battaglia per l’abolizione della schiavitù). In questa formale parità di condizioni, chiunque può eccellere, diventare eroe e, quindi, fare la storia. La dura ma feconda tensione tra aristocrazia e democrazia trova un’efficace composizione nella sua visione del capitalismo.

Emerson concepisce in chiave sia economica sia spirituale e in senso eticamente positivo quel modo di produzione che, proprio negli stessi anni (del 1857 è il saggio “per la critica dell’economia politica”, del ’67 la pubblicazione del Capitale), Marx denunciava come l’oppressione dell’uomo sull’uomo e, quindi, come negazione della libertà. Oppositore implicito del marxismo e, quindi, del comunismo prima ancora che esso si manifestasse pienamente, egli replica alla dottrina pauperistica e all’utopia socialistica di Thoreau sostenendo che l’uomo non deve accontentarsi “di una capanna e una manciata di piselli secchi”, e le contrappone una precisa teoria della ricchezza: “l’uomo è nato per essere ricco”, perché la ricchezza implica libertà e felicità. La “domanda di ricchezza” è dunque legittima e, in quanto legata alla ricerca della felicità, necessaria allo sviluppo dell’individuo e dell’umanità. Liberista (“la base dell’economia politica è la non interferenza”) ma non naturalista né tanto meno positivista (dobbiamo liberare il desiderio e “rispettare i fini mentre usiamo i mezzi”), egli ritiene che le virtù del capitalismo siano intrinseche alla crescita del genere umano, perché “la vera prosperità consiste nello spendere sempre su un piano più elevato; nell’investire e investire, così da poter spendere in creazione spirituale”. Perciò “l’uomo dev’essere capitalista”, perché l’accumulazione non è solo sedimentazione economico-materiale, ma accrescimento della potenza, forma primaria dello sviluppo dello spirito. Il reinvestimento degli introiti ha un senso metafisico, perché significa “raccogliere il particolare nel generale”. Il capitale dunque è “forza e spiriti animali”, ma anche “immaginario e pensiero”, come pure “coraggio e perseveranza”.

Quello che oggi in Occidente viene chiamato il capitale immateriale era già stato delineato da Emerson come finalità della crescita: “questo è l’autentico interesse composto; questo è capitale centuplicato; l’uomo elevato alla sua più alta potenza”. In questo senso va intesa la sua esaltazione della forza dei Sassoni e della loro superiorità nell’anima del capitalismo (“da un migliaio d’anni la razza dirigente, per la qualità della loro indipendenza personale e per l’indipendenza economica”). Ma il più germanico dei filosofi statunitensi è al tempo stesso uno dei fondatori dello spirito americano. Due dei caratteri fondamentali di quello spirito – la ricerca della felicità e della ricchezza come finalità dell’agire umano, e la ricerca della sintesi fra individuo e società – sono infatti elaborati ed espressi da Emerson in modo insuperabile.