domenica 12 luglio 2009

Ralph Waldo Emerson, il padre degli USA

Storia di un “filosofo con il megafono” dalla scrittura schietta e clamorosa. Che divenne il vero Cicerone americano

Tutti, volenti o nolenti, passarono da lui, perché lui poteva fare di un comune mortale un Cesare. Riflessioni

di Davide Brullo, da "Il domenicale", anno 2005.

Per fortuna che ogni tanto nasce un Cicerone. Lingua asciutta e schietta, filosofia spiccia. C’interessa ciò che siamo e come andiamo. Il “dove” lo si lasci ai teologi di quart’ordine. E i pensieri iperuranici tutti a Platone, e le sottigliezze minute minute tutte ad Aristotele. A noi garba la filosofica semplicità. Secolo passa secolo, in un passaggio di testimone che più in là di così non può andare, Roma si trasfigura negli States, lungo un impero diversificato ma dalle fondamenta solide che collega New York a Los Angeles e tanta prateria in mezzo. Che assorbe e rifà quanto ha messo a dottrina la Grecia-Europa. A loro, gli europeini verso cui soffriamo ancora di qualche complesso d’inferiorità (i romani buoni prendevano lezione dai greci dopo averli schiacciati), il pensiero pensante, a noi il pensiero che agisce. E gli Usa il loro Cicerone ce l’hanno avuto, e di che schiatta. Ralph Waldo Emerson (1803- 1882), ovvero, il filosofo con il megafono. Che scrive che a leggerlo è come bere ampie sorsate di aureo succo, che parla dai pulpiti di mezza America, che getta pistolettate di pensieri buoni all’uso alla pari di un rappresentante di miracolosi farmaci. Se vuoi capire il genio americano rivolgiti a lui. E comincia a leggere i suoi celebri saggetti radunati ora sotto il titolo Diventa chi sei (sprigionante azione e pionierismo da tutti i pori rispetto al contemplativo e grecissimo “conosci te stesso”) da Stefano Paolucci, che ne fa una curatela ottima e calorosa (Donzelli, Roma 2005, pp.148, e12,50). Amo tutti i tuffatori... Tutti son passati da lui, o quantomeno gli hanno sfiorato la mano. Hawthorne lo stimò assai, la Dickinson, pur sempre distante dai vaniloqui del mondo, probabilmente ci pranzò assieme e assistette a una sua conferenza, nel 1857, l’anno in cui di lei sappiamo pochissimo, se è vera quella frase tramandata dai familiari per cui avrebbe detto che egli, il grande savio degli States, era «come se fosse uscito da dove i sogni sono nati». Inutile dire di Henry D. Thoreau che mette in pratica e per scritto i consigli del maestro, a casa del quale campeggiò più di un giorno. Inutile dire del grandioso Walt Whitman, che fu il Lucrezio di Emerson, nel senso che di questo si direbbe molto meno, come per Epicuro, se non avesse avuto il suo obliquo cantore. Di cui riconobbe immediatamente il talento: fu l’unico, il 21 luglio 1855, a scrivere una lettera di felicitazioni dopo la lettura del “perverso” Foglie d’erba. Pare che però se la ebbe a male quando Walt decise di apporre la lettera a mo’ di preludio alla seconda edizione del libro. Microscopie. Fatto è che dallo stesso arbusto cresce fogliame d’ogni genere. E Melville? Lo gnostico geniale e distrutto dal proprio genio non spartisce niente con nessuno, tranne con Shakespeare e il Testo Sacro (e certe smancerie ad Hawthorne). Una concessione gliela facciamo, però. All’epoca di Mardi, che non fosse per l’impegno critico di Ruggero Bianchi nessuno conoscerebbe in Italia (la sua curatela al libro, esempio raro di precisione analitica e affettiva, fu edita da Mursia, Milano 1987), uno dei libri melvilliani assieme a Pierre che i critigonzi fanno fatica a capire anche oggi che son passati centocinquant’anni, cioè attorno al 1849, Melville scrive a Evert A. Duyckinck, uno dei suoi radissimi amici, che il pensatore «è un grand’uomo », e poi, in altra lettera e più lungamente, fiorisce il discorso così: «Diciamo pure, per amor di discussione, che Emerson sia uno sciocco: in questo caso preferisco essere uno sciocco anziché un saggio. Io amo tutti gli uomini che sanno tuffarsi. Qualsiasi pesce è capace di nuotare in prossimità della superficie; ma ci vuole una grande balena per scendere a cinque miglia e più di profondità». Poi, però, chiude la pratica scrivendo di «non vibrare nell’arcobaleno di Emerson», e abbozzando una spigolosa caricatura del filosofo, definendolo un «Platone che parla nel naso». Sbruffonerie da chi si allena a divenire un santo. Il famosissimo emersoniano Fiducia in se stessi è una specie di manuale per il perfetto yankee. E che i pionieri avrebbero fatto bene a tenersi in saccoccia. Che respiro ampio, che bontà vera. E che sculacciate a quanto non è originariamente umano, e perciò originariamente “americano”. Alle spine i malcelati complessi d’essere poco più che figli bastardi della ricca Europa, «Noi dobbiamo procedere da soli»; «la storia è danno e impudenza se vuol essere qualcosa di più di un ridente apologo o di una parabola del mio essere e del mio divenire». Che preziosi quei diamanti del tipo «insisti su te stesso; non imitare mai», come ci si amplia il petto, e ci s’impilano i muscoli al sentire tali assiomi: «è solo quando un uomo si sbarazza di ogni sostegno a lui estraneo e sta in piedi da solo, che io posso vederlo forte e vincente». Io sono Michael Jordan Curiosità bibliografica svelataci da Paolucci: in epoca fascista, in cui imperava il training autogeno, Emerson era dato in pappa agli scolaretti. E chi non vorrebbe come maestro uno che, siamo alle Leggi spirituali, ti tirava su il morale dicendoti che «questa sopravvalutazione delle possibilità di Paolo e di Pericle, questa sottovalutazione delle nostre personali possibilità deriva dal trascurare il fatto che esiste una natura identica». Il sangue che scorre in questa vena è lo stesso che scorreva in Eschilo e Cesare, in Napoleone e in Michael Jordan. Emerson sembra uno di quegli allenatori stravincenti, un Pat Riley, un Fabio Capello, che sanno come galvanizzare i propri (chi non lo sa che il distacco tra il primo e il secondo non è nelle gambe ma nella testa?). Del tipo, ragazzi, qui, ora, adesso, come mai prima, lottiamo per l’eternità. Che bello un tempo in cui matematicamente funzionava la regoletta per cui «se un uomo sa di saper fare qualcosa, e sa di poterla fare meglio di chiunque altro, egli ha la garanzia che tutti quanti riconosceranno questo fatto». Mentre oggi tutto dipende da “cosa” sai fare, e c’è un tale pasticcio d’idee per cui a mala pena si riesce a riconoscerla un’opera di genio. Ma lì, nel tempo emersoniano, nel tempo del sogno americano e di una frontiera ricca di scoperte «un uomo è considerato per quel che vale. Ciò che egli è sta inciso a lettere di fuoco sul suo volto, sulla sua forma, sulle sue esperienze. Né il celarsi né il vantarsi gli servono a nulla». E così il lavoro maieutico del sapiente Ralph resta inciso nelle pagine del suo diario, in una riga del 1839: «Inviterò gli uomini immersi nel tempo a ritrovare se stessi e ad uscire dal tempo per gustare la loro nativa aria immortale». Che bello, pare di ringiovanire, iscriviamoci alla Setta dei Poeti Estinti, rivediamoci L’attimo fuggente di Peter Weir, con i marmocchi che vogliono una vita silvestre come Thoreau, e berciano mimando Emerson, e canticchiano come il barbuto Walt «O Capitano! mio Capitano! il nostro viaggio tremendo è finito,/ La nave ha superato ogni tempesta, l’ambito premio è vinto ». I tempi del sogno americano. Presto abortiti. Già l’energia galvanizzante ed emersoniana di Melville è votata a scrutare il maligno. Con gli altri è rovina. Faulkner, Caldwell e i “perduti” intaccano all’osso l’allegria dei pionieri. Il sogno s’è fatto incubo. L’unico emersoniano fino al caramello, prosa larga, pelagica, divorante anche l’oscurità è Thomas Wolfe. Semplicemente, il demonio Per Robert Penn Warren, appuntito critico d’America, ma soprattutto poeta non da poco e perciò introvabile nei banconi di casa nostra, Emerson, glielo aveva suggerito Allen Tate, era semplicemente il demonio. E ci credo, con quell’idea che anticipa la New Age per cui ogni testo sacro è sacro, che il dio è il dio di tutti e che Ralph chiama con il nomignolo di “Over- Soul”, cioè superanima, che leggi la Bibbia o il Corano o i Veda e in entrambi vedrai la verità, e che il dio semmai lo trovi da te senza nessun parroco che t’imbocchi a proposito... ce n’è da far saltar per aria non solo i bacchettoni. Quella fiducia, poi, che spazzava la tradizione tutta, faceva tremare le ginocchia (e se ne abusò, a destra come a sinistra). E quella balorda idea della Compensazione, invero lo sforzo filosofico più acuto di Emerson e di più larga gestazione, per cui «ogni atto reca in sé la propria ricompensa, o, in altre parole, integra se stesso», cioè: «colui che compie una buona azione ne è immediatamente nobilitato. Colui che compie un’azione meschina è limitato dall’azione stessa. Colui che si spogli dell’impurità si veste conseguentemente di purità. Se un uomo è giusto nel profondo dell’animo, nella misura in cui lo è, egli sarà allora Dio: la salvezza di Dio, l’immortalità di Dio, la maestà di Dio entrano in quell’uomo con la giustizia»? Le cose partono da lontano, dall’8 febbraio 1831. A diciannove anni Ellen Louisa Tucker, con cui un Emerson in attesa di diventare Emerson si era sposato un anno e mezzo prima, muore. È la batosta che inaugura una nuova vita. Alla base del retto conoscere c’è un grave dolore direbbe Eschilo. In questo caso il dolore viene assorbito velocissimamente, almeno all’apparenza. Due ore dopo la morte di Ellen, Ralph scrive alla zia paterna Mary Moody Emerson una lettera di questo tipo: «Il mio angelo è andato in cielo questa mattina & io sono solo al mondo & stranamente felice». Pensare è agire avrebbe detto di lì a poco il famosissimo conferenziere. Dalle parole ai fatti. Liberatosi (si fa per dire) della moglie, Emerson salpa per l’Europa, ci fa i conti, e torna vincitore e pieno di grandi idee negli States. In Compensazione scrive: «La morte di un caro amico, di una moglie, di un fratello, di una persona che amiamo, che all’inizio non sembrava altro che privazione, più tardi assume l’aspetto di una guida o buon genio; poiché tali eventi operano solitamente delle rivoluzioni nel nostro modo di vivere, terminano un’epoca di infanzia o di giovinezza che aspettava solo di essere chiusa, mandano all’aria un’occupazione abituale, o l’unità della famiglia, o uno stile di vita, e ne permettono la formazione di nuovi, più adatti alla crescita del carattere ». Già, magari per spiriti dotti e ampi come quelli di Emerson. Ma a noi eterodossi la cosa fila poco, siam più desti a vedere come degli idioti quelli che in vita sperano che il maltolto gli verrà restituito. E poi, caro Ralph Waldo, creatore di una beata scappatoia, non è che così si risolvono gli interrogativi di Giobbe o di Davide. A lezione da Shakespeare L’uomo che vedeva nel genio di Shakespeare il precursore del genio americano, sublime condottiero dell’europeità ma pure alfiere di ciò che sarebbe sorto, per cui «Shakespeare è escluso dalla categoria degli autori eminenti quanto lo è dalla folla. È inconcepibilmente saggio, gli altri lo sono concepibilmente. Un buon lettore può, fino a un certo punto, rannicchiarsi nel cervello di Platone e pensare da lì, ma non in quello di Shakespeare. Siamo ancora fuori. In termini di facoltà esecutiva, di creazione, Shakespeare è unico», quest’uomo così accorto non seppe vedere il genio che scandaglia il male (un male inestirpabile, incoerente, necessario) del sommo inglese. O non lo volle vedere. Ergo: non è che Riccardo III sia una scolaretta che va per margherite. Pietà per Emerson, non è degli uomini sapere e vedere ogni cosa. Un uomo come Ralph, un uomo che ci riconcilia con il mondo, facendo slalom tra pensierini foderati d’oro che fanno il verso alla sapienza orientale (parafrasi dalla Bhagavad-gita: «Azione e inazione sono uguali al cospetto del vero») è foriero d’indicazioni letterarie che spesso non mancano il bersaglio. Questa, ad esempio, adatta a rimettere in riga i critigonzi e gli aspiranti scrittorelli: «Non esiste fortuna nella reputazione letteraria. Chi emette il verdetto finale nei confronti di ogni libro non sono i parziali e rumorosi lettori del momento in cui esso viene pubblicato, ma una corte di angeli, un pubblico che non può essere né corrotto, né supplicato e né intimidito decide sul titolo alla fama di ogni uomo. Quaggiù arrivano solo quei libri che meritano di durare». In faccia a chi pensa che un libro è di peso perché ha sbancato il banco delle vendite. Poi, sia chiaro, anche il padre della patria Ralph pecca di troppa fiducia nei propri mezzi. Ad esempio quando dice che valoroso scrittore è colui che scrive direttamente dal “cuore”, in verità e adesione a se stesso. Così, al limite, si potrà scrivere un buon diario di bordo. Il cuore andrà limato almeno con la mente. Che Emerson ripassi il suo eroico Shakespeare.

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