domenica 12 luglio 2009

Ralph Waldo Emerson, il poeta della conoscenza

Gli editori italiani riscoprono il padre del “Rinascimento americano”
Di Renato Cristin, da "Liberal", estate 2008.

Ralph Waldo Emerson (1803-1882), che Nietzsche definì “il pensatore più ricco di idee del secolo”, è uno dei pilastri della filosofia americana e rappresenta una versione che potremmo definire non-analitica di quel pragmatismo che l’ha in gran parte determinata. La nuova traduzione di una delle sue opere fondamentali (Condotta di vita, introduzione di Giorgio Mariani, traduzione e cura di Beniamino Soressi, Rubbettino Editore, 309 pagg., 24 euro) ha il merito di riproporre al lettore italiano l’importanza di un pensatore che appartiene al ristretto novero di quegli scrittori (tra cui Hawthorne, Melville, Thoreau, Whitman, che nei primi anni Cinquanta del Diciannovesimo secolo rappresentarono ciò che è stato chiamato il “Rinascimento Americano”.

Insieme ad altre due recenti e meritorie pubblicazioni (Essere poeta, a cura di B. Soressi, Moretti & Vitali Editori, 103 pagg., 16 euro, Società e solitudine, a cura di Nadia Urbinati, Edizioni Diabasis, 137 pagg., 10 euro), quest’opera può rimediare a una lacuna di ricezione. Infatti, la figura di Emerson è stata poco valorizzata in Italia, sia perché del pensiero americano si è privilegiato il filone in cui si è mosso il pragmatismo, sia perché si è riduttivamente inteso il pensiero di Emerson come una forma di trascendentalismo derivato da quello tedesco e quindi di spessore inferiore all’originale. Tutt’altra è invece la verità su questo pensatore dall’energica visione metafisica e dal dirompente vigore letterario, che amava definirsi in primo luogo come “poeta”.

Egli tentata una mediazione, di fatto ben riuscita, fra un pragmatismo che vuole risolvere i problemi dell’esistenza concreta senza farsi troppo imbrigliare dalle prescrizioni morali e un eticismo che prospetta soluzioni pratiche avendo come riferimento costante i principi morali. La via mediana di Emerson è una filosofia pratica che trae insegnamento sia dalle situazioni della vita sociale sia dalle riflessioni della metafisica, che cerca di conservare un difficile equilibrio fra l’accettazione della potenza naturale e l’esigenza di miglioramento dell’essere umano, come pure fra onnipotenza divina e scelte umane. Il suo è un universo dinamico, il cui movimento è dato dalla tensione fra forze contrapposte (fato e volontà, natura e cultura, pietas e violenza, ecc.), un universo in cui si fondono l’elemento tragico e quello armonico. Sul piano gnoseologico, egli medita nel solco del binomio tracciato da Goethe: “poesia e conoscenza”, poesia come conoscenza, come metafisica: “la poesia è il perpetuo sforzo di esprimere lo spirito della cosa e cercare la ragione che ne causa l’esistenza”. E, come Hölderlin, ritiene che la poesia sia il fondamento del mondo: “ciò che resta, lo fondano i poeti”, recita infatti il verso hölderliniano. Un tributo al di sopra di ogni sospetto alla grandezza del pensatore americano venne da Nietzsche. Nonostante nel 1876 consideri le ultime opere di Emerson come frutto di un pensatore “alquanto invecchiato e troppo innamorato della vita”.

Nietzsche gli ha sempre riconosciuto un forte influsso genealogico sul proprio pensiero, in particolare per quanto riguarda la nozione di volontà di potenza, ritrovando nel filosofo americano quella visione eroica dell’esistenza (“tutte le gesta che han fatto la nostra civiltà erano i pensieri di poche buone menti”, scrive Emerson) che dovrebbe portato alla delineazione nietzschiana dell’übermensch, dell’uomo che trascende i propri limiti per affermarsi nella sua superiorità rispetto sia alla natura sia alla cultura (il caso ha voluto che Emerson morisse nell’anno in cui Nietzsche pubblicata la Gaia scienza). Ma pur essendo un sostenitore dell’aristocrazia spirituale (le masse sono una “calamità” e non devono “essere lusingate ma ammaestrate”), Emerson fu nel contempo un paladino della democrazia sociale. Egli ha teorizzato senza reticenze la tensione dell’uomo verso la potenza individuale e generale, ma fu anche colui che Dewey chiamò “il filosofo della democrazia”.

Recupera la concezione elitaria di Carlyle, secondo cui la storia viene costruita dalle personalità eccezionali, ma la disloca entro una dinamica in cui gli eroi diventano “uomini rappresentativi”, in cui la pura autorità diventa autentica autorevolezza e in cui non ci sono distinzioni né di censo né di razza (celebre fu la sua battaglia per l’abolizione della schiavitù). In questa formale parità di condizioni, chiunque può eccellere, diventare eroe e, quindi, fare la storia. La dura ma feconda tensione tra aristocrazia e democrazia trova un’efficace composizione nella sua visione del capitalismo.

Emerson concepisce in chiave sia economica sia spirituale e in senso eticamente positivo quel modo di produzione che, proprio negli stessi anni (del 1857 è il saggio “per la critica dell’economia politica”, del ’67 la pubblicazione del Capitale), Marx denunciava come l’oppressione dell’uomo sull’uomo e, quindi, come negazione della libertà. Oppositore implicito del marxismo e, quindi, del comunismo prima ancora che esso si manifestasse pienamente, egli replica alla dottrina pauperistica e all’utopia socialistica di Thoreau sostenendo che l’uomo non deve accontentarsi “di una capanna e una manciata di piselli secchi”, e le contrappone una precisa teoria della ricchezza: “l’uomo è nato per essere ricco”, perché la ricchezza implica libertà e felicità. La “domanda di ricchezza” è dunque legittima e, in quanto legata alla ricerca della felicità, necessaria allo sviluppo dell’individuo e dell’umanità. Liberista (“la base dell’economia politica è la non interferenza”) ma non naturalista né tanto meno positivista (dobbiamo liberare il desiderio e “rispettare i fini mentre usiamo i mezzi”), egli ritiene che le virtù del capitalismo siano intrinseche alla crescita del genere umano, perché “la vera prosperità consiste nello spendere sempre su un piano più elevato; nell’investire e investire, così da poter spendere in creazione spirituale”. Perciò “l’uomo dev’essere capitalista”, perché l’accumulazione non è solo sedimentazione economico-materiale, ma accrescimento della potenza, forma primaria dello sviluppo dello spirito. Il reinvestimento degli introiti ha un senso metafisico, perché significa “raccogliere il particolare nel generale”. Il capitale dunque è “forza e spiriti animali”, ma anche “immaginario e pensiero”, come pure “coraggio e perseveranza”.

Quello che oggi in Occidente viene chiamato il capitale immateriale era già stato delineato da Emerson come finalità della crescita: “questo è l’autentico interesse composto; questo è capitale centuplicato; l’uomo elevato alla sua più alta potenza”. In questo senso va intesa la sua esaltazione della forza dei Sassoni e della loro superiorità nell’anima del capitalismo (“da un migliaio d’anni la razza dirigente, per la qualità della loro indipendenza personale e per l’indipendenza economica”). Ma il più germanico dei filosofi statunitensi è al tempo stesso uno dei fondatori dello spirito americano. Due dei caratteri fondamentali di quello spirito – la ricerca della felicità e della ricchezza come finalità dell’agire umano, e la ricerca della sintesi fra individuo e società – sono infatti elaborati ed espressi da Emerson in modo insuperabile.

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