domenica 12 luglio 2009

Paura e libertà (l'America, la paura e Ralph Waldo Emerson)

di Francesca Rigotti, rivista “Diogene”

Nel 1989 Judith Shklar, docente e studiosa di teoria politica dell’università Harvard, pubblicò un saggio dal titolo “Liberalismo della paura” (Liberalism of the fear), ispirato al pensiero di Montesquieu. Il titolo, non di immediata comprensione, sta a significare che il liberalismo è il principio politico che libera dalla paura.Per un liberalismo coraggiosoIl liberalismo della paura di Shklar contiene una teoria dei diritti in base alla quale il primo diritto consiste nell’essere protetti dal primo vizio, che a sua volta non è, per Shklar, la superbia bensì la crudeltà, com’ella ben spiega in Vizi comuni. Tutti i diritti, anzi, dovrebbero essere impegnati a proteggere l’uomo dalla crudeltà perché la crudeltà è il più crudele dei mali. Ispira paura e la paura distrugge la libertà.In particolare il sistema liberale deve prevenire dalla paura creata da atti di forza arbitrari, inaspettati e non necessari perpetrati dallo Stato, per esempio azioni di crudeltà, soprusi e torture eseguiti da corpi istituzionali come esercito, polizia e servizi segreti. In uno stato liberale non si dovrebbe aver paura della tortura perché la tortura non vi dovrebbe esistere, affermava Judith Shklar, mostrando, ahimé, non grande lungimiranza proprio rispetto al suo paese di adozione, gli Stati Uniti. Ma a parte il ritorno della tortura e continuando a sviluppare l’intuizione di Shklar, il liberalismo che previene dalla paura e che elimina la paura in che rapporto si pone con il coraggio?È questo il punto che vorrei affrontare, proprio a partire dalle tesi di Shklar. Esiste un liberalismo del coraggio, un liberalismo che incoraggia il coraggio oltre a prevenire dalla paura. Si può parlare, in termini di filosofia politica, di un “coraggio” del liberalismo?Per enucleare questo punto vorrei ricordare le posizioni di due autori “protoli-berali” che mi aiuteranno, per esclusione o per inclusione, a chiarire meglio la mia posizione.La donna: vile per natura?Il primo autore è Kant, nei confronti del quale si procederà per esclusione, dal momento che le sue osservazioni sul coraggio escludono tutte le donne, me compresa, dalla possibilità di esercitare e persino di conoscere la virtù del coraggio. In vari punti delle sue Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime (1764), come pure dell’Antropologia da un punto di vista pragmatico (1798), il filosofo di Koenigsberg esprime chiaramente le proprie considerazioni, pur non dedicando in alcuna delle due opere una trattazione particolare al coraggio. Kant non soltanto attribuisce le passioni, bassamente valutate, al sesso femminile, e il ben più elevato intelletto (Verstand) al sesso maschile; Kant in più assegna in toto i sentimenti connotati negativamente e passivamente alle donne, le emozioni attive e positive agli uomini. Se le donne hanno sentimenti (Gefühle), gli uomini abbiano intelletto (Verstand). Anzi, un intelletto profondo e accurato per le cose gravi, importanti e sublimi; alle donne si addice il leggero e superficiale sentimento del bello, del grazioso, del morbido e piccolo. Nell’ambito della distribuzione secondo il sesso, i due membri della coppia paura/coraggio spetteranno, ça va sans dire, alle donne la prima, agli uomini il secondo, anche perché il coraggio sarebbe per Kant una virtù razionale, che si avvicina dunque all’intelletto; la paura, un sentimento passionale.Se proprio vogliamo trovare qualche traccia di coraggio nella donna la individueremo, spiega Kant nelle Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime, nel coraggio di seguire il proprio uomo nella miseria o di sopportare con lui disgrazie e fallimenti. Con pazienza, già che la pazienza sì, è femminile, insiste Kant; il coraggio, è maschile.E tutto ciò senza che da parte di Kant vengano spese molte parole per motivare la naturale disposizione della femmina alla paura (Ängstlichkeit), anche se una breve spiegazione di ordine antropologico viene concessa: la paura della donna garantisce la riproduzione della specie in quanto l’espressione di tale “naturale debolezza che pertiene al suo sesso” risveglia nel maschio i suoi altrettanto naturali caratteri di forza e di protezione. Anzi, in un crescendo di argomenti denigratori, si sostiene da parte di Kant che se la donna avesse la forza e il coraggio di difendersi da sola non avrebbe bisogno dell’uomo, che ama nella donna proprio queste debolezze e carenze. Il coraggio è contagiosoSappiamo che Kant non era ancora completamente liberale, benché molte delle sue intuizioni e teorizzazioni in campo etico siano state accolte nella teoria liberale moderna, in particolare nella versione egualitaria elaborata da John Rawls e basata precisamente sui principi della morale kantiana. Rivolgiamoci quindi a un filosofo successivo, nato e cresciuto negli USA, culla della democrazia moderna, Ralph Waldo Emerson, le cui osservazioni sul coraggio includeremo invece nella nostra storia. Definire Emerson liberal-democratico è senza dubbio eccessivo, oltre che antistorico. Eppure anch’egli costituì un importante ambito di riferimento per molti filosofi liberali successivi.In una conferenza tenuta nel 1859 davanti alla società dell’attivista antischiavista Theodore Parker, Emerson si soffermò a parlare del coraggio presentandolo come una delle qualità che in maggior misura suscitano la meraviglia e la reverenza dell’umanità, insieme al disinteresse e alla potenza pratica.La definizione di Emerson dice che il coraggio “è lo stato sano e giusto di ogni uomo, quando è libero di fare ciò che per lui è costituzionale fare”. Quello “stato di ogni uomo” potrebbe far nuovamente pensare al coraggio come virtù esclusivamente virile, e in effetti tutti gli esempi di coraggio come “volontà perfetta che nessun terrore può scuotere” sono maschili, da Leonida a Cesare, a Nelson, Napoleone etc. Eppure, anche la “timida donna”, di fronte a situazioni estreme, non teme il dolore, sostiene Emerson, e mostra il proprio coraggio quando ama un’idea più di ogni altra cosa al mondo, provando letizia “nella solitaria adesione al giusto”. Persino la donna “non teme le fascine che la bruceranno; la ruota torturatrice non le fa spavento”.La paura infatti, prosegue Emerson argomentando in maniera davvero originale e insolita, è superficiale e illusoria quanto lo è il dolore fisico che alla fine, dopo il primo tormento, diventa quasi impercettibile. La paura è superabile quando si è all’altezza del problema che ci sta dinnanzi. È tanto più sormontabile quanto più si comprende precisamente il pericolo. L’antidoto alla paura è la conoscenza; la conoscenza toglie la paura dal cuore, dà coraggio e il coraggio è contagioso. Possono aiutarci dunque queste considerazioni filosofico-letterarie a individuare, se esiste, e se esiste in che cosa consiste, il “coraggio del liberalismo”? Paura e liberalismoBenché l’amore per la democrazia sia considerato una passione grigia, fredda e pacata e il liberalismo sia ritenuto una teoria politica ragionevole e tranquilla, ben lontana dall’infiammare gli animi e spingere la gente sulle barricate, il liberalismo sarebbe impensabile senza il coraggio: tant’è che alcune posizioni contemporanee che propongono di sacrificare la libertà alla sicurezza per preservare dalla paura, non dei soprusi istituzionali come pensava Shklar, bensì degli attacchi terroristici e criminali, finiscono per snaturare i caratteri fondamentali del liberalismo, soprattutto nella versione, cui mi rifaccio, del liberalismo egualitario.Gli ideali di libertà del filosofo Isaiah Berlin sono radicati nel senso di autonomia, del darsi da sé le proprie leggi senza aspettare sostegni e suggerimenti dall’esterno, nemmeno da precetti religiosi. Non voglio dire con ciò che un autore liberale rifiuta l’idea di un Dio legislatore in campo morale: la sua presenza o assenza è però indifferente rispetto all’autonomia e alla libertà degli uomini. Certo che esistono società politiche dove la separazione tra Stato e Chiesa è netta eppure la fede religiosa è molto diffusa, come gli Stati Uniti. Ma la presenza della fede religiosa in ambito politico, economico o scientifico non è certo palpabile o determinante, ed è proprio questo che definisce “secolari” tali società. Il liberalismo non ha bisogno di fondamenti divini né di richiami alla trascendenza, benché possa convivere in spirito di tolleranza con persone che a essi si richiamano purché queste non interferiscano con le sue iniziative; il liberalismo dovrebbe mantenere un atteggiamento di perfetta neutralità rispetto alle credenze, fedi e opinioni religiose e areligiose. E di fatto il liberalismo ha svolto un’utile opera di smussamento di alcune punte delle chiese, che hanno dovuto mutare in parte le loro idee, per esempio nei confronti della sottomissione sessuale, per sostenere il consenso politico alla riforma liberale.Ma il seguire il proprio cammino in autonomia da norme divine richiede coraggio. Che tipo di coraggio? C’è un ideale di coraggio simile a quello dello stoicismo che ispira l’idea del bene senza garanzie di successo, anzi, con la certezza del fallimento totale; non soltanto nel senso che un universo indifferente spazzerà via alla fine l’intero operato dell’umanità, ma anche nel senso che non si riconosce una speranza trascendente al di là della storia. Tocchiamo qui l’altezza pura della moralità umana, autonoma e autofondata, completamente devota al bene e al giusto. Non è l’autogiustificazione di Nietzsche che deliberatamente respinge l’egualitarismo, la democrazia, la filantropia e il bene di tutti. L’umanesimo liberale che ha il coraggio di definirsi tale valorizza la capacità di autonomia che pensa l’uomo come la fonte delle sue rappresentazioni e dei suoi atti. Paura e libertàUno degli eroi precursori di questa storia è sicuramente Ugo Grozio, rappresentante della tradizione giusnaturalista che vede le relazioni umane come regolate dalla “legge naturale”, cioè da leggi morali vincolanti che pongono condizioni normative etsi Deus non daretur, anche se Dio non esistesse. Altri eroi ne sono lo scrittore Camus, con la sua posizione “ellenistica” che esalta la sapienza di vita nell’immediato e non nel lontano; Isaiah Berlin e poi Judith Shklar, teorici e seguaci di un liberalismo negativo che pratica la filantropia, evita la sofferenza, lotta contro l’oppressione e considera il valore più alto il liberalismo che preserva dalla paura e invita al coraggio.Il coraggio mostrato dai re indiani conquistati dai predoni spagnoli, quel loro invincibile coraggio che consisteva nel dignitoso rifiuto di compiacere i loro conquistatori; come pure il coraggio dei poveri, dei contadini francesi dell’epoca di Montaigne che mostravano questa loro virtù vivendo rassegnati e morendo senza scalpore, anche queste per Montaigne-Shklar sono forme di coraggio.Il coraggio di darsi autonomamente norme e regole, per contratto, per consenso, dopo dialogo e deliberazione, è diventato una delle cifre della modernità e della secolarizzazione. È il coraggio di stabilire standard per una vita buona che ha senso soltanto finché ci saranno umani, ma che non vale soltanto per gli umani bensì anche, per esempio, nelle nuove frontiere della giustizia di Martha C. Nussbaum, per gli umani disabili e per gli animali non umani, troppo spesso presi in considerazione per carità e compassione e non per giustizia. Mentre i doveri verso prossimi e lontani, umani e non umani, abili e disabili sono, per il coraggio del liberalismo, doveri di giustizia e non di carità, di rispetto e riconoscimento di dignità, non di amore né ammirazione.

Una versione più estesa di questo saggio è comparsa sulla rivista ParadoXa, n.1, 2008.

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